Tuesday, March 02, 2021 - Network: [Magicamente.net - Storie e Poesie] [Quiz Arena - L'app dei quiz online] | |||||
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coppermine
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Achmatova
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L'ORIGINE DELL'UOMO - Mito Bantù
Postato da spalato il Sabato, 29 aprile @ 12:30:49 CEST (4784 letture)
![]() LUONNOTAR
Postato da spalato il Sabato, 29 aprile @ 12:28:54 CEST (2786 letture)
![]() TULUGAU il corvo padre - Mito eschimese
Postato da spalato il Sabato, 29 aprile @ 12:23:24 CEST (1269 letture)
![]() Corvo si fermò sorpreso e, ad un tratto un baccello s'aprì di colpo... e ne usci un uomo! Corvo, che non aveva mai visto una tale creatura, fece un balzo indietro. Ma anche l'uomo, che non aveva mai visto un corvo, si spaventò. Passata la sorpresa, Corvo chiese all'uomo: «Hai fame?» L'uomo di fame ne aveva, e anche tanta. Allora Corvo gli indicò un arbusto e gli disse: «Mangia le bacche di quell'arbusto!» L'uomo ci provò, ma dopo averle mangiate tutte aveva più fame di prima. Allora Corvo prese dell'argilla e modellò buoi muschiati e caribù, che subito si misero a galoppare per la prateria. Poi diede all'uomo arco e frecce per cacciare, dicendo: «Non uccidere troppi animali, altrimenti diverranno pochi e tu avrai di nuovo fame». L'uomo ebbe rispetto per gli animali creati dal Corvo, ed essi gli furono amici. Passarono molti anni. Gli uomini divennero avidi e uccidevano sempre più animali. Corvo osservava indignato, finché risalì alle praterie del Cielo e non scese mai più sulla Terra. Un giorno, quando gli uomini saranno di nuovo amici di buoi e caribù, Corvo tornerà. Le leggende dei vulcani
Postato da Grazia01 il Mercoledì, 26 aprile @ 20:13:35 CEST (8864 letture)
![]() Per gli antichi greci le eruzioni vulcaniche erano provocate dai Titani. I Titani combattevano con gli déi dell'Olimpo e nelle loro tremende battaglie scuotevano la Terra, la quale in tutta risposta non poteva che vomitare il fuoco nascosto nelle proprie viscere. Il più grande dei Titani era Tifone, figlio di Tartaro e di Gaia (il leggendario nome del pianeta Terra). Gli déi, per punire la sua insolenza di volerli combattere, lo imprigionarono sotto il vulcano Etna. Ma Titano non si diede per vinto. Le sue urla e i suoi gridi si sentivano lontano chilometri, si scuoteva e muoveva la terra per la rabbia, il suo alito incandescente fuoriusciva infine dalla bocca del vulcano. Per la leggenda i vulcani nascondevano un'officina. Efesto, dio del fuoco e dei vulcani, sotto il mediterraneo fucinava le armi per gli déi. Fulmini per Giove e armi e scudo per Achille. Infine i ciclopi, il cui loro unico occhio simboleggiava proprio la bocca di un vulcano mentre la loro statura e forza si paragonava a quella delle montagne. Quello che fuoriusciva dai vulcani del Mediterraneo era perciò il fumo e le scintille provocate dal lavoro di Efesto e dei ciclopi. Furono i greci antichi, mediante osservazioni e deduzioni logiche, a immaginare la vera natura dei vulcani, ma la civiltà fiorente di Creta, popolo di navigatori che controllava le principali coste, è stata scossa nel 1650 a.C. circa, da una potente eruzione del vulcano posto sull'isola di Santorini, coinvolgendo la capitale Cnosso. Un primo strato di pomice eruttata dal vulcano elevò uno spessore di quattro metri prima di lasciare spazio a una breve calma. Successivamente il vulcano esplose distruggendo anche sé stesso e seppellendo l'isola di Santorini sotto uno strato di pomice di circa sessanta metri. Quello che restò del vulcano sprofondò infine nel mare, ma il maremoto conseguente ai sommovimenti tellurici, provocò ondate alte duecento metri che spazzarono via gli insediamenti costieri cretesi. La vicenda venne successivamente descritta da Platone nella sua opera “Crizia” e ciò da probabilmente ebbe origine la leggenda di Atlantide. I romani ereditarono quindi leggende e timori, dapprima sostituendo i nomi dei protagonisti: Tifone divenne Encelade ed Efesto fu Vulcano, dio romano del fuoco. Perfino nel Vecchio Testamento, successivamente introdotto a Roma mediante la religione cristiana, si possono rinvenire tracce di vulcani. Alcuni pensano che le famose piaghe d'Egitto descritte nella Bibbia siano la conseguenza dell'eruzione del vulcano di Santorini. Un'altra ipotesi riguarda la fuga dall'Egitto permessa dal ritiro delle acque del mar Rosso che potrebbe essere stata una conseguenza del maremoto provocato dallo stesso evento. Altre suggestive immagini della Bibbia lasciano pensare facilmente ai vulcani: “La Maestà Divina si stabilì sul monte Sinai che fu avvolto per sei giorni dalle nuvole, il settimo da una nuvola il Signore chiamò Mosé. Ora la Maestà divina apparve come un fuoco che divorava la sommità della montagna, mostrandosi alla vista dei figli di Israele” (Esodo XXIV, 16-17). Ora, il terzo giorno, di mattina ci furono tuoni e fulmini, e una nube densa sulla montagna, e si udì un suono di corno molto intenso. Tremarono tutti gli uomini nell'accampamento. Mosé fece uscire tutti gli uomini al cospetto della divinità, ed essi si fermarono ai piedi della montagna. E ora la montagna del Sinai divenne tutta fumante perché il Signore vi era disceso in mezzo alla sua fiamma; il suo fumo si innalzò come quello di una fornace e la montagna intera venne scossa violentemente. Il suono del corno aumentò di intensità. Mosé parlò e la voce divina gli rispose” (Esodo XIX, 10-21). Più recentemente i vulcani sono stati oggetto di romanzi e libri. All'inizio del 900, un erudito scrittore M.P. Shiel redigeva “La nube purpurea”, in Italia edito da Adelphi, un romanzo in cui ipotizzava l'emissione di una nube di acido solfidrico da una serie di vulcani, che avrebbe praticamente distrutto l'intera umanità, lasciando sé stesso quasi unico testimone dell'evento. Ho sognato di volare - Dacia Maraini
Postato da Grazia01 il Martedì, 25 aprile @ 16:37:18 CEST (14069 letture)
![]() Ho sognato di volare tante volte in una una volta in tante, leggera sopra i tetti con un sospiro di gioia nera posandomi sui cornicioni seduta in bilico su un comignolo quanto quanto quanto ho camminato sulle vie ariose dell'orizzonte fra nuvole salate e raggi di sole un gabbiano dal becco aguzzo un passero dalle piume amare erano le sole compagnie di una coscienza addormentata vorrei saper volare ancora in sogno ancora, come una rondine, da una tegola all'altra e poi sputare sulle teste dei passanti e ridere della loro sorpresa, piove? O sono lacrime di un Dio ammalato? Volo ancora, ma nelle tregue del sonno il piede non più leggero scivola via, una mano si aggrappa alla grondaia che scappa vorrei volando volare e riempire di allegrie le spine del buio. Dacia Maraini Il Leone di San Babila
Postato da spalato il Lunedì, 24 aprile @ 17:23:15 CEST (1438 letture)
![]() I miei giorni - Dacia Maraini
Postato da Antonio il Giovedì, 13 aprile @ 19:15:07 CEST (4284 letture)
Se amando troppo - Dacia Maraini
Postato da Antonio il Giovedì, 13 aprile @ 18:54:16 CEST (6230 letture)
![]() ![]() Se amando troppo si finisce per non amare affatto io dico che l'amore è una amara finzione quegli occhi a vela che vanno e vanno su onde di latte casa si nasconde mio Dio dietro quelle palpebre azzurre un pensiero di fuga un progetto di sfida una decisione di possesso? La nave dalle vele nere gira ora verso occidente corre su onde di schiuma fra ricci di neve e gabbiani affamati so già che su quel ponte lascerò la scarpa, un dente e buona parte di me. Dacia Maraini Butch Cassidy - La leggenda del fuorilegge gentiluomo
Postato da spalato il Giovedì, 13 aprile @ 09:35:43 CEST (1259 letture)
![]() Robert Leroy Parker, questo il suo nome all'anagrafe, nacque a Beaver nello Utah il 13 Aprile 1866. Ultimo di tredici figli di una famiglia di mormoni (e forse da questo si può far risalire la sua "mitezza"), trascorse la sua adolescenza presso il ranch di Circleville nello Utah. Qui conobbe un navigato cowboy chiamato Mike Cassidy, che ebbe una notevole influenza su di lui instradandolo all'arte della rapina. Negli anni successivi Robert si allontanò da casa e lavorò in diversi ranch, seguì una strada che lo portò a essere un cowboy errante e un fuorilegge. Nel 1892 si fermò a Rock Spring nel Wyoming dove indossò il grembiule da garzone in una macelleria e proprio qui ottenne il soprannome "Butch" (Macellaio). Da allora decise di cambiare nome; assunse il cognome Cassidy in parte in onore di quell'uomo che ammirava tanto ma anche perché era il nome di un fuorilegge già conosciuto: agli occhi di Butch era un ottimo "biglietto da visita". Il primo colpo della banda di Butch Cassidy, anche se fallito per via dell'intrepido impiegato che si rifiutò di aprire la cassaforte malgrado la minaccia delle armi, risale alla sera del 3 novembre 1887 alla ferrovia Rio Grande di Denver, nel Colorado. I componenti della banda avendo concordato di non spargere sangue si allontanarono a mani vuote. Ci riprovarono il 30 marzo 1889, questa volta ai danni della First National Bank di Denver. La banda era composta da Butch Cassidy e Tom McCarty. Cassidy informò il direttore che era a conoscenza di un complotto per rapinare la banca e al direttore pallido e concitato che chiedeva lumi in merito rispose: "Come sono venuto a saperlo? Semplice sono io l'organizzatore." Estrasse una bottiglietta dicendo che era nitroglicerina e che sarebbe saltato tutto in aria: gli venne subito erogato un assegno di 21.000 dollari. Butch Cassidy e Tom MacCarty uscirono dalla banca e Butch gettò in un cestino la bottiglietta che conteneva solo acqua. Il primo crimine im(edited)to alla banda fu la rapina alla banca San Miguel a Telluride, Colorado, il 24 giugno 1889 compiuta insieme a Tom McCarty, Matt Warmer, e Bart Madden. Perfettamente riuscita, dopo aver immobilizzato il cassiere: prelevarono 10.000 dollari. La banda ne uscì senza spargimenti di sangue, trascorrendo l'inverno alla macchia. Seguirono anni di scorrerie, rapine e momenti di "riposo", in cui Butch per far calmare le acque dopo un colpo, si dava anche a qualche lavoro onesto; poi estese la sua attività criminale anche al furto di cavalli. Fra le altre cose questa sorta di Robin Hood del west, pare che si impegnasse a portare medicamenti e conforto a malati della zona. Non mancarono fatti tragici con alcuni morti ammazzati fra gli uomini della banda. Nel 1894, dopo aver tentato una rapina a mano armata, venne sorpreso dallo sceriffo Ward che, dopo uno scontro a fuoco, riuscì a ferire il bandito e ad arrestarlo. Butch Cassify venne rinchiuso in gattabuia per due anni dove però non smise di architettare rapine e colpi definitivi. Propositi puntualmente realizzati una volta aperte le porte del penitenziario. Butch per l'occasione catalizzò intorno a sé un gruppo di criminali, una trentina di persone, che si erano ribattezzati Gruppo Selvaggio: subito ne divenne il nuovo capo (al suo fianco vi era anche il mitico compagno di avventure Sundance Kid). La maggioranza dei crimini della banda avvenne tra il 1896 e il 1901 con colpi clamorosi, come quello del 1897 in cui si impadronirono degli stipendi dei minatori di Castle Gate. Altri sconsiderati assalti seguirono, ma in particolare una rapina al treno della Union Pacific a Tipton, nel Wyoming, il 29 agosto 1900, contribuì a farlo identificare (venne riconosciuto dalle numerose persone a bordo). Butch decise di andare in Sud America per respirare aria migliore ma servivano altri soldi: si procurò un bel malloppo a forza di svaligiare altre banche e treni. Poi scomparve dalla circolazione. Di lui si sa che trascorse questa specie di esilio volontario, braccato, insieme all'inseparabile Sundance, fra Argentina, Bolivia e Cile, nel timido tentativo di lavorare come onesti allevatori. In un cruento scontro a fuoco con le forze dell'ordine boliviane avvenuto il 6 novembre 1908 (data presunta) pare che Cassidy e Sundance siano morti. Pare, perché nessuno ha la certezza che fossero loro. Molti accettarono l'idea che i due "americanos" morirono nella sparatoria di San Vicente, ma la leggenda vuole che i due si lasciarono credere morti e che passarono la loro vecchiaia nel West sotto falso nome. Chi ha inventato la televisione?
Postato da Grazia01 il Mercoledì, 12 aprile @ 18:58:13 CEST (1864 letture)
![]() ![]() L'idea di trasmettere a distanza immagini trasformate in segnale elettrico fu nel 1842 di un inventore scozzese, Alexander Bain. Ma bisogna dire che alla realizzazione della televisione si è arrivati attraverso una serie di piccoli passi, tutti egualmente significativi. La prima data da citare è il 1876: in quell'anno, il fisico tedesco Eugen Goldstein scoprì che in un tubo a vuoto (cioè un tubo di vetro svuotato dall'aria, nel quale le due estremità erano a un diverso potenziale elettrico) scorreva un flusso di radiazioni che andava dal polo negativo ("catodo") a quello positivo ("anodo"). Quelle radiazioni, che nel punto di arrivo generavano un fenomeno di fluorescenza, furono chiamate da Goldstein "raggi catodici". Poi, nel 1888, il tedesco Heinrich Hertz scoprì le radioonde. Nel 1894 l'italiano Guglielmo Marconi scoprì che un lungo filo verticale collegato a un ricevitore di radioonde rendeva i segnali molto più forti e chiari: era stata inventata l'antenna. Nel 1906 il fisico americano Reginald Fessenden realizzò la prima trasmissione radio a modulazione di ampiezza, e nel 1919 Edwin Armstrong costruì un più efficente ricevitore che negli anni Venti permise di dare il via alle trasmissioni radio pubbliche. Nel frattempo, era stato scoperto che un fascio di raggi catodici modulato da un campo magnetico poteva "dipingere" un'immagine su uno schermo. Nel 1923 l'inglese John Baird realizzò il primo impianto televisivo: sei anni dopo la BBC iniziò le trasmissioni. La prima telecamera vera e propria venne inventata nel 1934, mentre la prima trasmissione a colori venne realizzata nel 1953, negli Stati Uniti. La "Topolino"
Postato da Antonio il Mercoledì, 12 aprile @ 12:00:23 CEST (1609 letture)
![]() ![]() La prima produzione di autovetture, datata 1900, avvenne con l'utilizzo di 150 operai nello stabilimento Fiat, in Corso Dante a Torino. Da lì uscirono 24 autoveicoli modello Fiat 3/12hp, di cui una curiosità era la mancanza della retromarcia. Ancora nel 1903 la produzione era limitata a 103 pezzi di auto. Al 1902 risale anche la prima affermazione della casa nelle competizioni automobilistiche, quando, con alla guida Vincenzo Lancia si aggiudica una gara locale piemontese la Torino Sassi-Superga. Sempre al primo decennio del XX secolo risalgono le prime diversificazioni della Fiat nel campo dei veicoli commerciali, dei tram, degli autocarri e dei motori marini. La società inizia anche un'attività all'estero con la fondazione della Fiat Automobile Co negli Stati Uniti nel 1908; nel frattempo si amplia anche il numero delle persone occupate, giunte a 2500 unità nel 1906. Nel 1908 viene messa in produzione la Fiat 1 Fiacre, prima autovettura destinata alla funzione di taxi e di cui vennero esportati numerosi esemplari nelle più importanti città come Parigi, Londra e New York. Poco prima dello scoppio della prima guerra mondiale, la società torinese rinnova totalmente la gamma di autovetture in produzione con la presentazione dei modelli 1,2,3,4,5,6; di questi modelli va ricordata la presenza dei primi esempi di batteria e di trasmissione a cardano. Nel 1911 l'azienda si cimenta nella costruzione di un'autoveicolo specifico per battere il record mondiale di velocità: a tal fine costruisce la Fiat 300 hp Record, un'auto di quasi 29.000 cc e 290 cv di potenza, in grado di sfiorare i 300 kmh. “Un uomo in orbita. E sta bene…”
Postato da spalato il Mercoledì, 12 aprile @ 09:52:15 CEST (1352 letture)
![]() Chi ha inventato la cioccolata?
Postato da Antonio il Martedì, 11 aprile @ 21:56:25 CEST (1825 letture)
![]() ![]() Analisi effettuate da alcuni scienziati sui residui di una antica "teiera" di ceramica hanno dato un risultato inatteso: il popolo dei Maya, e probabilmente i loro stessi predecessori, si ingozzavano di cioccolata già oltre 2600 anni fa! La scoperta è appetitosa (in tutti i sensi) in quanto la più antica testimonianza verificata fino ad oggi di uso di cioccolata era di ben 1000 anni superiore! Dunque, si riapre clamorosamente l'acceso dibattito su chi abbia inventato la cioccolata. Michael Coe, co-autore del libro "The True History of Chocolate", in base a questa nuova scoperta e ad altre considerazioni di tipo linguistico, ritiene che le radici della cioccolata vadano molto indietro nel tempo, esattamente all'epoca della grande civiltà olmeca, immediatamente precedente a quella dei Maya. "I Maya derivarono gran parte della loro grande cultura da quella degli Olmechi. Anche la parola "Cacao" non è una parola originaria dei Maya, ma derivata dai loro predecessori." Gli Olmechi vissero nella zona meridionale del Golfo del Messico tra il 1500 ed il 500 a.C, e la loro zona d'influenza comprendeva il Guatemala, l'Honduras, Il Belize, la Costa Rica ed El Salvador. La cioccolata è ricavata dai semi della pianta del cacao, avvolti in una polpa collosa all'interno di gusci giallo-verdastri. I semi e la polpa vengono estratti dal guscio e lasciati a fermentare, fino a quando i semi acquisiscono un colore marrone scuro. A questo punto i semi vengono fatti essiccare e poi messi a cuocere, per produrre una spesso impasto di cioccolata. I Maya avevano abitudini alimentari che farebbero invidia a molti bambini di oggi. Era infatti la bevanda della gente comune e l'alimento dei capi e degli dei. Il nome scientifico della pianta del cacao è infatti "Theobroma Cacao", che significa "Cibo degli dei". Ma come hanno fatto gli scienziati a stabilire che la sostanza rinvenuta nell'antichissimo recipiente fosse realmente cioccolata? Sono stati prelevati dei campioni della sostanza ed inviati ad un istituto avanzato di analisi biochimica, l'Hershey Foods Technical Center di Hershey in Pennsylvania, dove è stato utilizzata una tecnica denominata cromatografia liquida insieme alla spettrografia di massa della ionizzazione chimica. La prima tecnica serve a separare tutti i componenti della miscela, l'altra misura il peso molecolare di ogni sostanza. Il cacao è una miscela costituita da ben oltre 500 composti chimici. da www.encarta.it Specchio
Postato da Grazia01 il Martedì, 11 aprile @ 19:12:30 CEST (1109 letture)
![]() dello specchio sbilenco mi guarda… l’insulto del tempo indifferente non mi ferisce (l‘abitudine lenta ai guasti preserva da improvvisi stupori…) è la meraviglia assente dall’iride aperta a visioni ormai note è la lascivia dei giorni che incomincia adesso a scavare nel fondo e mi aspetta in agguato ridendo sguaiata del mio terrore maryama da www.scrivi.com L'ombrello
Postato da Grazia01 il Martedì, 11 aprile @ 18:45:01 CEST (1372 letture)
![]() ![]() La semplice funzionalità di un accessorio come l’ombrello rende difficile conciliare la sua utilizzazione pratica con un’origine che sfiora il mito; eppure, pochi oggetti del nostro vivere quotidiano possono vantare radici così antiche e leggendarie. L’unico elemento certo è la provenienza non occidentale: la Cina, l’India e l’Egitto si proclamano infatti paese-culla del parasole, ciascuno con motivazioni più che valide. Queste "rivendicazioni" ci permettono di aggiungere un altro dato sicuro ad una storia priva di certezze: l’ombrello è, fin dal suo apparire, collegato alla rappresentazione simbolica del potere, quando non, addirittura, attributo della divinità. Fin dal XII secolo a.C., l’ombrello cerimoniale apparteneva alle insegne dell’Imperatore della Cina e tale rimase per circa trentadue secoli, fino alla scomparsa del Celeste Impero. All’incirca nello stesso periodo, i re persiani potevano, unici tra i mortali, ripararsi dal sole per mezzo di un ombrello, sorretto da qualche dignitario; più democraticamente in Egitto si concedeva tale privilegio a tutte le persone di nobile origine. In questo paese nasce, forse, il mito più bello, la più profonda simbologia legata all’ombrello: la dea Nut era spesso rappresentate in forma di parasole, con il corpo arcuato a coprire la terra, in atto di protezione e di amore. Il forte significato di status symbol come prerogativa regale, o comunque di potere, assunto dall’ombrello, spiega la sua contemporanea comparsa nell’immaginario religioso. Come in Egitto, anche in India viene associato alle dee della fertilità e del raccolto o, in senso più lato, della morte e della rinascita: nella sua quinta reincarnazione, Vishnu aveva riportato dagli Inferi l’ombrello, dispensatore di pioggia. Alla sfera del mito dobbiamo l’introduzione nel mondo occidentale del nostro accessorio, che compare in Grecia legandosi al culto di Dionisio (un dio di probabile origine indiana), ma anche di dee come Pallade e Persefone, che tra i loro fedeli contavano soprattutto donne. Sono le donne che, nelle feste dedicate a queste divinità, si riparano in loro onore con un parasole, passato nel III secolo a.C. anche nel mondo romano, dove viene descritto dai poeti come delicato e prezioso oggetto in mani femminili. Sembrerebbe quindi di avere delineato una storia completa: da simbolo di potere, umano e divino, a oggetto di lusso e di seduzione. Eppure, tra i tanti valori e segni di civiltà cancellati dalla scomparsa dell’Impero romani, ci fu anche l’ombrello, di cui non rimase traccia nei "secoli bui", se non per la sua sopravvivenza nel culto cattolico, inizialmente come insegna pontificale, poi nell’uso liturgico. Totalmente sconosciuta all’antichità fu perciò la principale funzione utilitaria dell’ombrello, quella di parapioggia. Mantelli, cappucci e cappelli di pelle risolsero il problema della pioggia nel mondo classico ed in quello medievale. ![]() Museo dell'ombrello e del parasole a Gignese ![]() Gignese (in origine Zinexium) è un comune di 784 abitanti della provincia del Verbano Cusio Ossola. È un rinomato centro di soggiorno estivo dell'alto Vergante, situato alle pendici del monte Mottarone, alla destra del torrente Grisana. L'abitato - prossimo al lago Maggiore e alla città di Stresa - offre ottimi scorci panoramici. Nato da un progetto di Igino Ambrosini, figlio e fratello di ombrellai (1883 - 1955) già fondatore del Giardino Botanico Alpinia, il museo si insediò nel 1939 al piano superiore delle scuole elementari. L'allestimento ricchissimo di materiale e pieno di fascino era testimonianza dell'amore per il proprio paese e per il proprio lavoro. Nel 1976 il Museo dell'Ombrello e del Parasole si trasferì nell'attuale edificio costruito grazie alla collaborazione del Comune e dell'Associazione "Amici del Museo" presieduta allora da Zaverio Guidetti, industriale (manco a dirlo) dell'ombrello di Novara. L'edificio, se si osserva dall'alto delle gradinate della Chiesa Parrocchiale di San Maurizio ha la pianta a forma di tre ombrelli aperti affiancati. L'attuale allestimento, dovuto all'architetto Bazzoni, risale alla seconda metà degli anni '80, ma già un nuovo progetto del Comune di Gignese in collaborazione con la Regione Piemonte, l'Ecomuseo Cusio Mottarone e l'Associazione degli ombrellai sta per essere attuato. Il museo recupera usi e costumi assai radicati nel Vergante. Articolato su due piani, raccoglie al piano terra una collezione di circa trecento reperti (su oltre 1.500 catalogati) frutto dell'attività specializzata tipica fin da tempi antichi nella zona. Al secondo piano è ospitata una sala dedicata all'esposizione di materiale fotografico che ricorda le antiche fabbriche e il metodo lavorativo di questo particolare tipo di opifici. Il Museo dell'Ombrello e del Parasole di Gignese è visitato annualmente da 8-10 mila visitatori. ![]() Angoscia
Postato da Grazia01 il Martedì, 11 aprile @ 13:23:41 CEST (1413 letture)
![]() ![]() Il tempo si ripiega su stesso, come lenzuola in un armadio, il passato e il presente si toccano. e persino si sovrappongono. Tutto si dissolve in un caleidoscopio incoerente di scene frammentate, i ricordi esplodono all'esterno in ogni direzione nella mente un suono prima è un mormorio, poi aumenta d’ intensità e distinguo parole, pensieri, domande disperate e risposte senza forma. E' un muro dentato di rumore contro cui l'equilibrio si scontra in modo insensato, cercando di non sentire, cercando di non ricordare. Sono un fiocco di neve che galleggia in un pozzo profondo, Sono un grumo di fuliggine caduto nel cielo offuscato di nebbia. Sono un nulla, intriso di dilaniante dolore. Grazia La vita
Postato da spalato il Martedì, 11 aprile @ 13:20:32 CEST (1309 letture)
![]() ![]() La vita Passata ma non vissuta Misteriosa, dura, troppo dura A volte leggera come una farfalla E non ti accorgi del suo tocco. La vita Un orologio che corre troppo E il tempo manca per viverlo Il vortice ti prende E ti trascina dove vuole. La vita Uno sguardo da un treno velocissimo Senza le fermate intermedie In mezzo ad un deserto e solitudine La vita mista morte. spalato L'orco (favola toscana)
Postato da Antonio il Lunedì, 10 aprile @ 12:48:39 CEST (1418 letture)
![]() ![]() C'era una volta un vecchio contadino che aveva tre figlie: Maria, Assunta e Caterina. Erano talmente poveri che non potevano permettersi neppure un tozzo di pane. Un giorno il padre, disperato, supplicò la figlia Maria di andare a rubare un po' di frutta e verdura nell'orto dell'Orco. Maria andò nel giardino dell'Orco e riempì il suo paniere di frutta e ortaggi, ma, al momento di scavalcare il muro per tornare a casa, sentì una mano posarsi con violenza sulla sua spalla: era l'Orco !!! L'Orco la catturò e la portò nel suo castello dove l e diede le chiavi delle cinquanta stanze dicendole che poteva visitarle tutte tranne una che le indicò. Le diede poi tre palle d'oro ordinandole di tenerle con cura perché al suo ritorno, doveva infatti partire, gliele avrebbe chieste. Al mattino, dopo la partenza dell'Orco, Maria, tenendo ben strette tra le mani le tre palle d'oro per paura di perderle, girò tutta la casa, aprì tutte le porte e visitò tutte le stanze, saloni, salotti, camere, cucine, finche arrivò davanti alla porta proibita. Incurante degli ordini ricevuti, spinta dalla curiosità, l'aprì ed entrò. Quando si fu abituata all'oscurità della stanza, scorse un vecchio armadio ricoperto di ragnatele. Mentre cercava di aprirlo, senza riuscirci, una delle tre palle d'oro le cadde di mano e rotolò sotto l'armadio. Maria si sdraiò per terra per cercarla, ma, quando la riebbe tra le mani, si accorse che era macchiata di sangue. Spaventata per quello che l'Orco avrebbe potuto dirle cercò di togliere la macchia, ma più strofinava e più la macchia s'ingrandiva. A sera, quando tornò e chiese le tre palle d'oro a Maria, l'Orco vide la macchia di sangue su una delle tre, afferrò la ragazza per i capelli, la trascinò nella stanza segreta e la gettò nell'armadio. Intanto i giorni passavano, Maria non tornava a casa e il padre era preoccupato. Chiamò la seconda figlia e le disse: - Assunta, se l'età me lo concedesse, scavalcherei il muro del giardino dell'Orco, ma non posso allora tocca a te andare a vedere cosa è successo a tua sorella. Assunta, a mezzanotte, scavalcò il muro, entrò nel giardino e trovò il paniere della sorella. Cominciò allora a chiamarla sottovoce, ma nessuno rispondeva. Stava per tornare a casa, quando sentì sulla sua spalla il peso di una mano pelosa. Anche con lei l'Orco si comportò come aveva fatto con la sorella e anche lei, come Maria fu gettata nell'armadio della stanza proibita. Intanto il povero contadino, disperato per aver perso due figlie, disse alla terza:- Caterina, ho mandato a morire le tue sorelle, ma tu resterai con me! Ma Caterina era coraggiosa e volle andare ugualmente a cercare le sorelle, scavalcò il muro e, girando per il giardino, le chiamava sommessamente. Dopo aver chiamato e cercato inutilmente stava per tornarsene a casa, quando apparve l'Orco che l'afferrò e la portò dentro il castello. Anche a lei dette le chiavi delle cinquanta stanze, le disse dove poteva e non poteva andare e le consegnò le tre palle d'oro ordinandole di averne gran cura perché al suo ritorno, doveva infatti partire, gliele avrebbe richieste. La mattina dopo, appena alzata, la saggia Caterina mise le tre palle d'oro al sicuro in un cassetto e poi cominciò a girare per casa. Arrivata alla stanza proibita entrò, riuscì ad aprire l'armadio e dentro, mamma mia, vide che c'era un pozzo buio e fondo. Mentre, tenendosi alle ante, si sporgeva per tentare di vederne il fondo, sentì una vocina che chiedeva aiuto e la riconobbe per quella di Maria. Tutta felice gridò dentro il pozzo:- Maria, Maria, sono Caterina! Ora ti tirerò fuori! Con l'aiuto di una corda Caterina riuscì a tirare fuori le sorelle che le raccontarono di essere state tutto quel tempo in fondo al pozzo in mezzo a cadaveri e ossa umane senza bere e senza mangiare. Caterina, contenta di averle salvate, preparò loro un bagno caldo, le rifocillò, le nascose sotto un letto e si mise ad aspettare il ritorno dell'Orco. La sera l'Orco tornò e, verificato che le tre palle d'oro erano senza macchie, si complimentò con Caterina perché gli aveva obbedito e la invitò a cenare con lui. Durante la cena, fidandosi ormai della ragazza, le rivelò il suo segreto: la sua anima era racchiusa in un guscio d'uovo che teneva ben nascosto perché, se si fosse rotto, lui sarebbe morto. Caterina gli chiese se l'uovo, così prezioso, e veramente al sicuro e se, soprattutto, era ben pulito perché anche la più piccola macchiolina avrebbe potuto far ammalare la sua anima. L'Orco, senza supporre alcun inganno, andò ad un armadio, lo aprì: c'era uno scrigno d'argento, aprì anche quello e dentro, avvolto nell'ovatta, c'era l'uovo. - Vedi come è pulito? Disse mostrandolo a Caterina. - Ma no, disse lei c'è un puntolino nero qui sopra! L'Orco si chinò per guardare e Caterina, svelta, prese una sedia e la sbatté sulla testa dell'Orco, e la testa dell'Orco schiacciò l'uovo e la sua anima ne uscì fuori e lui restò stecchito. Allora Caterina chiamò le sorelle, insieme presero l'Orco e lo seppellirono nell'orto; poi fecero grandi pulizie nella casa che diventò un palazzo bellissimo, chiamarono il padre e vissero tutti e quattro felici e contenti. Sogno
Postato da Grazia01 il Domenica, 09 aprile @ 20:56:52 CEST (1207 letture)
![]() ![]() Prato profumato dai mille colori, Brezza marina nella calura estiva Una farfalla variopinta Ma anche i dolori. Cinguettio dei passeri Volo dell’aquila verso sole Acqua trasparente del rio Ma anche i pensieri. Lento passare delle ore Il suono delle campane L’odore dei pini Ecco, questo è amore. Apro il cassetto E prendo lo scrigno, Scrigno dei sogni Ma lo trovo vuoto. Spalato Panorama
Postato da Grazia01 il Domenica, 09 aprile @ 20:52:04 CEST (1097 letture)
![]() ![]() Una vallata forse come tante Circondata dalle vette alte Intrecciata dai rii E rigogliose piante. Un ruscello corre svelto Salta canta sussurra Racconta il passato e forse il futuro; Per lui il tempo è lento. Mi fermo e ascolto Incantevole momento di magia Io da sola e il mio ruscello Che mi piace molto. Ci parliamo e lui mi risponde Con una tenerezza naturale E con tutta sua allegria Spesso mi confonde. Ma che dici? Sarà vero? Mi sposto per un passo Ma la risposta appena sussurrata Rimane un mistero. Con lentezza mi allontano E con sguardo fisso Faccio una promessa Solo con un gesto di mano. Ritornerò………… p.s. non sono tornata Spalato Gea di Gea
Postato da Grazia01 il Domenica, 09 aprile @ 19:39:04 CEST (1130 letture)
![]() ![]() Terra, amica dell’uomo Rorida di vita Rigeneri te stessa Tra il gelo dell’indifferenza Tra l’arsura infuocata Risorgi Al tocco di un tenero sole. Terra, nel tuo seno Accogli ogni cosa ti si affidi Uguale a te stessa nel tuo divenire Pressata Sei roccia Scavata Morbida sabbia Trascinata dalla vita. Ecco Tu sei uguale a me Che rinasco Alla carezza di un tenero amore Allo stormire delle fronde in estate Alla risacca lenta e continua delle onde Al rosso dei miei tramonti Allo scintillio di uno sguardo amico Al tocco cercato e mai voluto Delle tue mani. Vivo la vita Con la rabbia dell’ultimo giorno Con l’intensità di un amplesso Con la staticità del vulcano Con la voluta incoscienza del sogno Con tutta me stessa E le mie contraddizioni Per arrivare libera nell’Essere. Gea A mio padre di Gea
Postato da Grazia01 il Domenica, 09 aprile @ 19:31:47 CEST (1325 letture)
![]() ![]() Mi manchi padre mi mancano quegli occhi di bimbo pieni di cielo quegli occhi che ridevano prima delle tue labbra quegli occhi che avevano conservato il grigio del mare in tempesta il desiderio di vivere la vita nella ricerca d’amici sempre nuovi ma mai dimenticati. Mi mancano i tuoi racconti spesso ripetuti ma sempre con un particolare in più quello delle tue fantasie. Mi manca il dialogo che non ho voluto l’amore spesso rifiutato dal mio spirito ribelle tanto simile al tuo. Mi manca il tocco delle tue mani che non ho mai stretto per timidezza o per rispetto, le braccia in cui non mi sono mai rifugiata per dimostrarti d’essere forte. La paura di perderti la certezza di averti deluso la finta aridità con cui ripagavo il tuo affetto giorno dopo giorno mi portarono lontano da te. Ora anche io vivo le tue delusioni ora mi manchi padre tanto mi manchi! GEA La Domenica delle Palme
Postato da Grazia01 il Domenica, 09 aprile @ 07:57:13 CEST (1488 letture)
![]() ![]() A' piedi del vecchio maniero che ingombrano l'edera e il rovo; dove abita un bruno sparviero, non altro, di vivo; che strilla e si leva, ed a spire poi torna, turbato nel covo, chi sa? dall'andare e venire d'un vecchio balivo: a' piedi dell'odio che, alfine, solo è con le proprie rovine, piantiamo l'ulivo! l'ulivo che a gli uomini appresti la bacca ch'è cibo e ch'è luce, gremita, che alcuna ne resti pel tordo sassello; l'ulivo che ombreggi d'un glauco pallore la rupe già truce, dov'erri la pecora, e rauco la chiami l'agnello; l'ulivo che dia le vermene pel figlio dell'uomo, che viene sul mite asinello. Portate il piccone; rimanga l'aratro nell'ozio dell'aie. Respinge il marrello e la vanga lo sterile clivo. Il clivo che ripido sale, biancheggia di sassi e di ghiaie; lo assordano l'ebbre cicale col grido solivo. Qui radichi e cresca! Non vuole, per crescere, ch'aria, che sole, che tempo, l'ulivo! Nei massi le barbe, e nel cielo le piccole foglie d'argento! Serbate a più gracile stelo più soffici zolle! Tra i massi s'avvinchia, e non cede, se i massi non cedono, al vento. Lì, soffre, ma cresce, né chiede più ciò che non volle. L'ulivo che soffre ma bea, che ciò ch'è più duro, ciò crea che scorre più molle. Per sé, c'è chi semina i biondi solleciti grani cui copra la neve del verno e cui mondi lo zefiro estivo. Per sé, c'è chi pianta l'alloro che presto l'ombreggi e che sopra lui regni, al sussurro canoro del labile rivo. Non male. Noi mèsse pei figli, noi, ombra pei figli de' figli, piantiamo l'ulivo! Voi, alberi sùbiti, date pur ombra a chi pianta ed innesta; voi, frutto; e le brevi fiammate col rombo seguace! Tu, placido e pallido ulivo, non dare a noi nulla; ma resta! ma cresci, sicuro e tardivo, nel tempo che tace! ma nutri il lumino soletto che, dopo, ci brilli sul letto dell'ultima pace! Giovanni Pascoli ![]() Giorgio Gaber
Postato da Grazia01 il Domenica, 09 aprile @ 07:50:07 CEST (1088 letture)
![]() ![]() Le elezioni Generalmente mi ricordo una domenica di sole, una mattina molto bella, un’aria già primaverile in cui ti senti più pulito anche la strada è più pulita senza schiamazzi e senza suoni, chissà perché non piove mai quando ci sono le elezioni. Una curiosa sensazione che rassomiglia un po’ a un esame di cui non senti la paura ma una leggera eccitazione, e poi le gente per la strada li vedi tutti più educati sembrano anche un po’ più buoni ed è più bella anche la scuola quando ci sono le elezioni. Persino nei carabinieri c’è un’aria più rassicurante ma mi ci vuole un certo sforzo per presentarmi con coraggio c’è un gran silenzio nel mio seggio, un senso d’ordine e di pulizia. Democrazia. Mi danno in mano un paio di schede e una bellissima matita lunga, sottile, marroncina, perfettamente temperata e vado verso la cabina volutamente disinvolto per non tradire le emozioni e faccio un segno sul mio segno come son giuste le elezioni. E’ proprio vero che fa bene un po’ di partecipazione, con cura piego le due schede e guardo ancora la matita così perfetta è temperata io quasi quasi mela porto via. Democrazia. Libertà Vorrei essere libero, libero come un uomo. Vorrei essere libero come un uomo. Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura. Sempre libero e vitale fa l’amore come fosse un animale incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà. La libertà non è star sopra un albero non è neanche il volo di un moscone la libertà non è uno spazio libero libertà è partecipazione. Vorrei essere libero, libero come un uomo. Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia. Che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà. La libertà non è star sopra un albero non è neanche avere un’opinione la libertà non è uno spazio libero libertà è partecipazione. La libertà non è star sopra un albero non è neanche il volo di un moscone la libertà non è uno spazio libero libertà è partecipazione. Vorrei essere libero, libero come un uomo. Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà. La libertà non è star sopra un albero non è neanche un gesto o un’invenzione la libertà non è uno spazio libero libertà è partecipazione. La libertà non è star sopra un albero non è neanche il volo di un moscone la libertà non è uno spazio libero libertà è partecipazione. Domenica delle Palme
Postato da Grazia01 il Sabato, 08 aprile @ 19:13:32 CEST (6331 letture)
![]() ![]() La Quaresima si chiude con la Settimana Santa. La Settimana Santa si apre con la Domenica delle Palme. Nella Domenica delle Palme si ricorda l'ingresso trionfale di Gesù nella città di Gerusalemme sei giorni prima della Sua Passione. Il Suo ingresso nella città fu accolto da una folla di gente semplice e di fanciulli con in mano palme e ulivi in segno di gioia, pace e saluto. La forchetta
Postato da spalato il Venerdì, 07 aprile @ 19:10:48 CEST (1399 letture)
![]() È quasi certo infatti che la forchetta fu vista per la prima volta su una tavola dell'Europa occidentale, in Italia, durante il famoso banchetto di nozze tra la principessa greca Argillo e il figlio del doge di Venezia, svoltosi nel 955. La tradizione vuole che in quell'occasione, mentre tutti erano intenti a mangiare con le mani, la raffinata principessa si portasse alla bocca il cibo aiutandosi con una forchetta d'oro a due rebbi. Evidentemente nella cerchia bizantina l'uso di questa posata era già diffuso, ma a Venezia ciò suscitò un tremendo scandalo: secondo le cronache dell'epoca tale novità parve un segno di raffinatezza talmente eccessivo, quasi d’ispirazione demoniaca, che la dogaressa fu severamente disapprovata dai preti, i quali invocarono su di lei la collera divina. Poco tempo dopo fu colta da una malattia innominabile, e san Bonaventura non esitò a dichiarare, assai poco caritatevolmente, ed assai poco correttamente alla luce degli insegnamenti ecclesiali, che s’ era trattato di un castigo di Dio. L’uso comunque di quella posata si diffuse rapidamente anche per merito della raffinata Caterina de’ Medici e di suo figlio Enrico III, che pare ne impose l’uso generalizzato ed invase tutta l’Europa soprattuto sulle tavole dei nobili e sulle mense di tutte le corti europee e l’uso summenzionato della forchetta a due o tre rebbi durò varî secoli, fino a tutto il 1850, quando alla corte di Napoli il re Ferdinando II Borbone delle Due Sicilie, che era golosissimo di maccheroni, anche di quelli a trafila lunga e sottile detti vermicelli che la plebe era solito consumare per istrada portandoli alla bocca con le mani, stanco di non poter farsi servire nei pranzi di corte codesti amati maccheroni (che con le posate ordinarie era difficilissimo consumare),diede mandato al suo ciambellano (e non maggiordomo, come erroneamente talvolta si riporta) Gennaro Spadaccini di risolvergli, pena il licenziamento, la faccenda; e lo Spadaccini, adeguatamente poi remunerato, ebbe un’idea semplice, ma geniale: portò da tre a quattro e poi a cinque i rebbi della forchetta, per modo che fosse possibile ammatassare con facilità i vermicelli, che da quel momento furono serviti ai pranzi di corte, accontendando il goloso sovrano. Che origine ha il dollaro?
Postato da spalato il Venerdì, 07 aprile @ 13:16:47 CEST (1077 letture)
![]() Quanto al simbolo, ci sono varie ipotesi: una sostiene che all’inizio si trattava di una U sovrapposta a una S, sigle per United States. Poi la base della U si cancellò a causa di una cattiva coniazione e così rimase la S con due segmenti verticali. L' Orient-Express
Postato da spalato il Venerdì, 07 aprile @ 13:15:34 CEST (1071 letture)
![]() Nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, la compagnia Wagons-Lits sviluppò una rete di treni di lusso che collegavano il Nord Europa con la regione dei Balcani e del Levante: a partire dal 1932, alla stazione di Belgrado il Simplon-Orient Express scambiava le carrozze dirette a Bucarest con quelle provenienti da Berlino, Ostenda, Amsterdam, Vienna o Praga; a Nis, infine lasciava una porzione del convoglio diretta ad Atene. Fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, l'Orient Express e il Simplon-Orient Express erano composti esclusivamente da vagoni-letto e vetture ristorante sontuosamente arredati, rinomati per l'elevata qualità della cucina e dei servizi; le uniche carrozze di servizio erano quelle adibite al trasporto dei bagagli e al servizio postale. I treni, frequentati da nobili, diplomatici e uomini d'affari europei e levantini, erano emblema di un mondo raffinato che ispirò numerosi artisti, scrittori e produttori cinematografici. Dopo il 1945, tuttavia, i treni non riguadagnarono il prestigio di cui godevano prima della guerra. Le carrozze di lusso della Wagons-Lits vennero perlopiù sostituite con normali carrozze. Oggi, in Europa, il nome Orient Express indica un servizio lungo la linea Parigi-Vienna-Budapest che ha ben poco del leggendario treno originale; il nome Simplon-Orient Express scomparve invece nel 1962. Milano e l'acqua
Postato da Grazia01 il Giovedì, 06 aprile @ 21:10:28 CEST (1598 letture)
![]() ![]() Milano sorge “in mezzo a molte acque”, tanto che da più parti si è cercato di interpretare il suo nome “medio-lanum” proprio come un’indicazione di questa sua posizione intermedia tra i corsi d’acqua. Una carta dei fiumi che le scorrono più da vicino ci mostra come sia posta tra il Ticino e l’Adda, tra l’Olona e il Lambro, tra il Nirone e il Seveso, in una strana successione di coppie di corsi d’acqua che vanno progressivamente diminuendo d’importanza avvicinandosi al cuore dell’antico centro celtico e poi romano. Molta parte della storia di Milano, antica e moderna, si può interpretare come una lotta con l’acqua che si svolge attraverso i secoli vedendo prevalere ora la tenacia dei Milanesi, ora la resistenza dell’acqua ad assoggettarsi al loro volere. I benefici dell’acqua sono sempre stati molteplici, prevalendo l’uno o l’altro nelle diverse epoche storiche. In epoca romana l’acqua serviva soprattutto per le fognature della città e per facilitare i trasporti. Nel XII secolo diventa un elemento difensivo, al quale subito si affianca un utilizzo sempre più ampio come bene economico per l’agricoltura (irrigazione) e per l’industria (mulini). Dalla fine del Trecento, quando le ambizioni dei Milanesi diventano smisurate come la loro nuova cattedrale, l’acqua viene vista sempre più come un mezzo per trasportare persone e cose e da quel momento la costruzione dei canali navigabili (navigli) sarà un loro cruccio costante, un assillo che è ancora presente ai nostri giorni. Percorrendo questo lungo viaggio nella storia di Milano capiremo perché l’acqua è ancora oggi qualcosa di speciale per questa città, tanto da giustificare strane leggende e una profonda nostalgia nei confronti di una scomparsa “città acquatica” simboleggiata dalle innumerevoli vedute dei Navigli che rappresentano per i Milanesi una sorta di paradiso perduto da rimpiangere o da riconquistare. Giuseppe Ungaretti
Postato da Grazia01 il Giovedì, 06 aprile @ 21:00:27 CEST (17107 letture)
![]() ![]() L'8 febbraio 1888 nasce ad Alessandria d'Egitto il grande poeta Giuseppe Ungaretti, da Antonio Ungaretti e Maria Lunardini entrambi lucchesi. Nella città natale trascorre l'infanzia e i primi anni della giovinezza. La famiglia si era infatti trasferita in Africa per ragioni di lavoro. Suo padre, però, che lavorava come operaio alla costruzione del canale di Suez, muore in un incidente; la madre è così cotretta ad arrangiarsi ma riesce a mandare avanti la famiglia grazie ai guadagni di un negozio della periferia di Alessandria. Il piccolo Giuseppe viene dunque allevato dalla madre, da una balia sudanese e da Anna, un'anziana croata, adorabile narratrice di favole. Ormai cresciuto, Frequenta l'Ecole Suisse Jacot, dove viene a contatto per la prima volta con la letteratura europea. Frequenta anche, nel tempo libero, la Baracca rossa, un ritrovo internazionale di anarchici, che ha il fervente organizzatore in Enrico Pea, versiliese, trasferito a lavorare in Egitto. Si trasferisce in Italia con l'intenzione di compiere studi di diritto a Parigi per poi tornare in Egitto. A poche settimane di distanza si reca finalmente a Parigi, raggiunto poi da Mohammed Sceab, che muore però suicida qualche mese dopo. Si iscrive alla facoltà di lettere della Sorbona e prende alloggio in un alberghetto in rue Des Carmes. Frequenta i maggiori caffè letterari di Parigi e diventa amico di Apollinaire, al quale si lega di profondo affetto. Malgrado la sua lontananza dall'Italia, rimane comunque in contatto con il gruppo fiorentino che, staccatosi dalla Voce, ha dato vita a Lacerba. Nel 1915 pubblica proprio su Lacerba le prime liriche. Viene però richiamato e inviato sul fronte del Carso e su quello francese dello Champagne. La prima poesia dal fronte è datata 22 dicembre 1915. Trascorre l'intero anno successivo tra prima linea e retrovie; scrive tutto il "Porto Sepolto", che viene pubblicato presso una tipografia di Udine. Curatore degli ottanta esemplari è "il gentile Ettore Serra", giovane tenente. Ungaretti si rivela poeta rivoluzionario, aprendo la strada all'ermetismo. Le liriche sono brevi, a volte ridotte ad una sola preposizione, ed esprimono forti sentimenti. Torna a Roma e, su incarico del Ministero degli Esteri, si dedica alla stesura del bollettino informativo quotidiano. Intanto, collabora alle riviste La Ronda, Tribuna, Commerce. La moglie nel frattempo insegna francese. La difficile condizione economica lo induce a trasferirsi a Marino nei Castelli Romani. Pubblica a La Spezia, una nuova edizione de "L'Allegria"; include le liriche composte tra il 1919 e il 1922 e la prima parte del "Sentimento del Tempo". La prefazione è di Benito Mussolini. ". La raccolta segna l'inizio della sua seconda fase poetica. Le liriche sono più lunghe e le parole più ricercate. Con il premio del Gondoliere del 1932, assegnato a Venezia, la sua poesia ha il primo riconoscimento ufficiale. Si aprono le porte dei grandi editori. Pubblica ad esempio con Vallecchi "Sentimento del Tempo" (con un saggio di Gargiulo) e dà alle stampe il volume "Quaderno di traduzioni" che comprende testi di Gòngora, Blake, Eliot, Rilke, Esenin. Il Pen Club lo invita a tenere una serie di lezioni in Sud America. In Brasile gli viene assegnata la cattedra di Letteratura Italiana presso l'Università di San Paolo, che terrà fino al 1942. Esce l'edizione compiuta del "Sentimento del Tempo". Nel 1937 una prima tragedia familiare colpisce Ungaretti: muore il fratello Costantino, per il quale scrive le liriche "Se tu mio fratello" e "Tutto ho perduto", apparse successivamente in francese in "Vie d'un homme". Da lì a poco, muore in Brasile, per un attacco di appendicite malcurato, anche il figlio Antonietto, di soli nove anni. Rientrato in patria, è nominato Accademico d'Italia e gli viene conferito un insegnamento universitario a Roma per "chiara fama". Mondadori inizia la pubblicazione delle sue opere sotto il titolo generale "Vita d'un uomo". Gli viene consegnato da Alcide De Gasperi il premio Roma; escono il volume di prosa "Il povero nella città" e alcuni abbozzi di "La Terra Promessa". La rivista Inventario pubblica il suo saggio "Ragioni di una poesia". Gli ultimi anni di vita del poeta sono intensissimi. E' eletto presidente della Comunità europea degli scrittori e tiene, come visiting professor presso la Columbia University, una serie di lezioni, stringendo fra l'altro amicizia con letterati e pittori beats del Village newyorkese. In occasione degli ottant'anni riceve solenni onoranze da parte del governo italiano: a Palazzo Chigi è festeggiato dal presidente del Consiglio Moro e da Montale e Quasimodo, con tanti amici attorno. Escono due edizioni rare: "Dialogo", (libro accompagnato da una "combustione" di Burri), piccola raccolta di poesie d'amore e "Morte delle stagioni", illustrata da Manzù, che raccoglie unite le stagioni della "Terra Promessa", del "Taccuino del Vecchio" e gli ultimi versi fino al '66. Viaggia negli Stati Uniti, in Svezia, in Germania. Nel settembre esce il volume mondadoriano che comprende Tutte le poesie, con note, saggi, apparati delle varianti, a cura di Leone Piccioni. Nella notte tra il 31 dicembre '69 e il primo gennaio '70 scrive l'ultima poesia "L'impietrito e il velluto". Torna negli Stati Uniti per ricevere un premio all'Università di Oklahoma. A New York s'ammala e viene ricoverato in clinica. Rientra in Italia e si stabilisce per curarsi a Salsomaggiore. Muore a Milano la notte tra l'1 e il 2 giugno. Ciao
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