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La leggenda di Piero e Sara
Postato da Grazia01 il Domenica, 26 marzo @ 12:51:05 CEST (1435 letture)
![]() ![]() Un giorno lontano, un signorotto, feudatario del Castello di Rotorscio, conobbe una bella fanciulla abitante a Rocca Petrosa. Affascinato dalla grazia della giovane, s 'invaghi di lei e decise di rapirla. Questa era innamorata e promessa sposa ad un altro castellano, suo coetaneo, di nome Piero. Un pomeriggio, il feudatario s'introdusse all'inteno della Rocca e riuscì a rapire la ragazza di nome Sara. Gli abitanti del luogo chiusero le porte di accesso alla Rocca e iniziarono una violenta colluttazione con i cavalieri seguaci del conte di Revellone. Durante la rissa, il conte, vistosi alla resa, uccise la bella Sara che teneva tra le braccia. Sopraggiunto Piero piombò addosso all'uccisore, il quale, brandendo una scure, colpì anche lo sfortunato giovane che cadde riverso vicino alla sua giovane amata e, dopo un ultimo abbraccio, le spirò accanto. A ricordo dell'infausta contesa e del triste sopruso, il Castello Petroso, assunse il nome di Pierosara che, a tutt'oggi, conserva. Il mito di Chimera
Postato da Grazia01 il Domenica, 26 marzo @ 12:45:44 CEST (1579 letture)
![]() ![]() Chimera. Suo padre fu Tifone, il cui corpo gigantesco culminava in cento teste di drago. Giace relegato sotto una delle isole vulcaniche della nostra terra (Ischia o la Sicilia), ancora fremente della rabbia che lo porto' un giorno lontano a sfidare gli dei, a cacciarli dall'Olimpo ed a ferire Zeus. Sua madre fu Echidna, la vipera, per meta' donna bellissima e per meta' orribile serpente maculato. Viveva in un antro delle terre di Lidia, cibandosi della carne degli sventurati viaggiatori. Chimera e' solo uno degli esseri mostruosi generati da Tifone ed Echidna. Suoi fratelli furono Cerbero, cane infernale dalle tre teste, la famosa Idra uccisa da Eracle, e Ortro feroce cane a due teste guardiano delle mandrie del gigante Gerione. Chimera e' la personificazione della Tempesta, la sua voce e' il tuono. Molte e diverse sono le rappresentazioni iconografiche del mostro leggendario. Probabilmente ad Esiodo (Teogonia) si ispiro' l'artista che la raffiguro' a Cerveteri con tre teste frontali, le cui due laterali di leone e di drago e la centrale di capra. All'Iliade invece sembra ispirato l'artefice della Chimera di Arezzo, leone davanti, capra sul dorso e serpente dietro. "Lion la testa, il petto capra, e drago la coda; e dalla bocca orrende vampe vomitava di foco ... (Iliade, VI, 223-225 trad.V.Monti) Il mito di Chimera Chimera fu allevata dal re Amissodore e per lunghi anni terrorizzo' le coste dell' attuale Turchia, seminando distruzioni e pestilenze. Fu Bellerofonte, eroe da molti ritenuto figlio del dio Poseidone, a fermare le scorribande del mitico mostro. Con l'aiuto di Pegaso Bellerofonte riusci a sconfiggere Chimera con le sue stesse, terribili, armi, infatti "...non c'era freccia o lancia che avrebbe presto potuto ucciderla." 1 Allora Bellerofonte immerse la punta del giavellotto nelle fauci della belva, il fuoco che ne usciva sciolse il piombo che uccise l'animale. Come gia' aveva fatto Perseo con Medusa, anche Bellerofonte abilmente seppe sconfiggere la creatura facendo si' che la sua forza si ritorcesse contro di lei. La Chimera d'Arezzo Capolavoro in bronzo della scultura etrusca (V-IV sec.a.C.). Fu scoperta nel 1553 nelle campagne di Arezzo e restaurata da Benvenuto Cellini, fu conservata per un periodo in Palazzo Vecchio dove Cosimo I dei Medici la volle accanto al proprio trono, fu poi spostata nella villa medicea di Castello perche' la sua presenza in Palazzo Vecchio era ritenuta funesta. L'originale e' adesso conservato al Museo Archeologico di Firenze mentre sono visibili due copie bronzee leggermente piu' grandi, collocate nella prima meta' di questo secolo ad ornare le due fontane in piazza della Stazione ad Arezzo. "Khimaira" Chimera prende il nome dalla caratteristica che la diversifica dai genitori, la testa di capra infatti non trova riscontro ne' in Tifone ne' in Echidna e ne diviene cosi' tratto peculiare. "Infatti Chimera, in greco Khimaira, significa capra"2. E "la capra e' ...il piu' selvatico tra i domestici e il piu' domestico tra gli animali selvatici." Ed e' in quest'ottica che si indicano tre significati simboleggiati da Chimera: il leone e' la forza, il calore e quindi l'estate; il serpente e' la terra, l'oscurita' e quindi l'inverno, la vecchiaia; la capra e' il passaggio, la transizione e quindi autunno e primavera. E sempre in quest'ottica si legge la dedica a Tinia, il mutevole Giove etrusco, iscritta sulla zampa anteriore destra della Chimera. "Non sia da meravigliarsi quindi che al sommo dio degli etruschi, principio cangiante di ogni cosa, venisse dedicata la multiaspetto velocissima Chimera" Làgole - Tra storia e leggende
Postato da Grazia01 il Domenica, 26 marzo @ 12:42:11 CEST (2060 letture)
![]() ![]() A Calalzo di Cadore, verso est, degradante dalle pendici del monte Tranego, uno sperone di roccia cerca ancora di emergere dalle acque del lago di Centro Cadore: quella località si chiama Làgole e si trova sotto la Stazione ferroviaria. In questo posto si sono dati convegno bizzarri artisti che hanno contrassegnato il luogo con spunti paesaggistici, storici e……fantastici. A Làgole scaturiscono, da sempre, delle polle che per gli antichi abitatori avevano di sicuro delle valenze 'magiche': in quelle acque, che servivano a purificare, a detergere, a sanare, abitava una divinità che si era scelto quel posto per dispensare dei favori. Prima di ottenerli bisognava, però, far precedere dei rituali e delle liturgìe particolari. La divinità, chiamata dagli studiosi TRUMUS ICATEI, elargiva, alle donne, il dono di diventare madre; ai guerrieri, di non morire in guerra; ai debilitati ed ai sofferenti, di sanare qualche parte dell'organismo. Queste 'dicerie' si tramutarono in racconti fantastici e si videro popolare le grotte antistanti il luogo sacro dalle fantasiose 'anguane', donne dai capelli rossi e dai piedi di capra. La saga tra gli abitanti del luogo e le perfide anguane durò a lungo e terminò solamente quando le anguane trucidarono tutte le splendide ragazze che si stavano tuffando nel bagno terapeutico, in occasione del plenilunio agostano, per conservare intatta la loro bellezza, in spregio agli anni che miseramente trascorrevano. La divinità della fonte sacra si vendicò dell'oltraggio fatto alle donne e decretò la morte immediata delle invidiose Anguane. Per molto tempo queste dicerie aleggiarono nei racconti delle persone più anziane le quali sapevano tutto sulla storia e le tradizioni locali. Del passato di Làgole non rimanevano che le 'fole' raccontate attorno al 'larìn' (il focolare cadorino) e la innegabile proprietà delle acque che rendeva immacolata la biancheria che veniva sciacquata anche d'inverno perché la temperatura e la portata erano sempre le stesse. Era il 18 maggio 1914 e la costruzione della linea ferroviaria portò, per la prima volta, il treno in Cadore. Il tracciato dei binari tagliava giusto a mezzo il luogo sacro di Làgole ma nessuno se ne accorse e le leggende continuarono a proliferare. Finalmente nel 1949 qualcuno, con paziente tenacia, cercò di dissotterrare dalle zolle del terreno il segreto. E così si svelò l'arcano. In una fortunata serie di scavi, durata fino al 1956, rividero la luce oggetti appartenenti all'antica popolazione che aveva abitato il luogo di Làgole. Furono tantissime statuine di guerrieri, di animali, di oggetti di uso comune e questi ultimi, tutti, regolarmente rotti. Il motivo fu individuato nel rito che precedeva l'assunzione dell'acqua dalla fonte sacra. Un po' dappertutto, su questi ritrovamenti, si lessero dei segni particolari incisi con strana grafia. Vennero studiati e si affermò appartenessero al popolo dei Venetici, popolo che arrivò in queste contrade tre secoli prima della nascita di Cristo. Tutti gli oggetti ritrovati sono ora esposti nel Museo della Magnifica Comunità di Pieve di Cadore, ma il luogo fantastico di Làgole è rimasto a perpetuare la memoria che galleggia sui riflussi della fantasia. Nessuno può andare a Làgole se prima non ha conosciuto la sua vera storia e nessuno può sostare tra le rive del "Lago delle tose" se prima non si è bene impresso nella memoria la storia delle cattive Anguane e della martoriata Bianca, la figlia bellissima del capo villaggio, inumata per sempre su una splendida vetta delle Marmarole. Marcello Rosina La nascita del panettone
Postato da Grazia01 il Domenica, 26 marzo @ 12:39:04 CEST (1572 letture)
![]() ![]() Tutte le città hanno un dolce preferito decantato come una loro specia-lità, ma il panettone di Milano ha un fascino tutto suo. A Natale i mi-lanesi lo scambiano coi loro parenti e gli amici. Non è solo la sua squi-sitezza a sollevare tanta curiosità, ma anche le leggende che, nel tem-po, si sono intrecciate intorno al tipico prodotto. Sono quasi tutte storie d'amore.Nel secolo d'oro del Rinascimento Italico, alla fine del XV secolo, la Corte di Ludovico il Moro a Milano superava in splendore e potenza tutte le altre Corti italiane.Ludovico era molto generoso. Fra i suoi beneficiati vi fu Giacometto degli Atellani, suo scudiero cui donò una casa (tuttora esistente), in borgo Vercellina, sul lato sinistro dell'attuale Corso Magenta, di fronte alla chiesa delle Grazie nel cui refettorio, allora, Leonardo da Vinci stava affrescando la famosa "Cena". Casa Atellani divenne in breve uno dei più brillanti ritrovi di Milano, dove convenivano le più belle dame milanesi e i migliori ingegni del tempo.Solamente il figlio di Giacometto non partecipava al tripudio della fa-miglia. Si chiamava Ughetto ed era innamorato della bellissima figlia di un vicino fornaio, Adalgisa, il cui negozio confinava con la casa de-gli Atellani.L'amore naturalmente era osteggiato dalla famiglia di Ughetto e il ra-gazzo poteva incontrare la sua Adalgisa solo di notte, quando lei ve-gliava nel forno del padre per attendere la panificazione quotidiana.Gli affari del fornaio però non andavano tanto bene perché l'apertura di un nuovo forno nelle vicinanze causò la perdita di molta clientela. Ughetto ebbe allora un'idea per risollevare la situazione: migliorò il pane aggiungendo del burro e dello zucchero. Il successo fu immedia-to. L'innamorato, vedendo rifiorire il sorriso sulle labbra di Adalgisa, si fece prendere dall'entusiasmo e una sera aggiunse anche pezzetti di cedro candito e delle uova. Fu un risultato colossale: tutto il borgo fa-ceva la coda alla porta del fornaio per acquistare il dolce.La famiglia Atellani fu ammansita dal buon successo del fornaio; così Ughetto e Adalgisa poterono coronare il loro sogno d'amore senza più ostacoli, e si sposarono. Casa Atellani di fronte al refettorio di S. Maria delle Grazie. Il leone di San Babile
Postato da Grazia01 il Domenica, 26 marzo @ 12:36:02 CEST (984 letture)
![]() I tre giorni della merla
Postato da Grazia01 il Domenica, 26 marzo @ 12:34:46 CEST (1318 letture)
![]() ![]() La leggenda dei tre giorni della merla si perde nell'onda del tempo. Sappiamo solo che erano gli ultimi tre giorni di gennaio, il 29, 30 e 31, e in quei dì capitò a Milano un inverno molto rigido. La neve aveva steso un candido tappeto su tutte le strade e i tetti della città. I protagonisti di questa storia sono un merlo, una merla e i loro tre figlioletti. Erano venuti in città sul finire dell'estate e avevano sistemato il loro rifugio su un alto albero nel cortile di un palazzo situato in Porta Nuova. Poi, per l'inverno, avevano trovato casa sotto una gronda al riparo dalla neve che in quell'anno era particolarmente abbondante. Il gelo rendeva difficile trovare le provvigioni per sfamarsi; il merlo volava da mattina a sera in cerca di becchime per la sua famiglia e perlustrava invano tutti i giardini, i cortili e i balconi dei dintorni. La neve copriva ogni briciola. Un giorno il merlo decise di volare ai confini di quella nevicata, per trovare un rifugio più mite per la sua famiglia. Intanto continuava a nevicare. La merla, per proteggere i merlottini intirizziti dal freddo, spostò il nido su un tetto vicino, dove fumava un comignolo da cui proveniva un po' di tepore. Tre giorni durò il freddo. E tre giorni stette via il merlo. Quando tornò indietro, quasi non riconosceva più la consorte e i figlioletti: erano diventati tutti neri per il fumo che emanava il camino. Nel primo dì di febbraio comparve finalmente un pallido sole e uscirono tutti dal nido invernale; anche il capofamiglia si era scurito a contatto con la fuliggine. Da allora i merli nacquero tutti neri; i merli bianchi diventarono un'eccezione di favola. Gli ultimi tre giorni di gennaio, di solito i più freddi, furono detti i "trii dì de la merla" per ricordare l'avventura di questa famigliola di merli. I Re Magi
Postato da Grazia01 il Domenica, 26 marzo @ 12:33:33 CEST (1452 letture)
![]() ![]() I milanesi per secoli chiamarono i tre Re Magi Eleuterio, Rustico e Dionigio. La loro storia è avvolta nel mistero: si dice che probabilmente non fossero nemmeno re, ma solo degli uomini molto ricchi. Neppure si conosce da quale paese d'Oriente venissero esattamente; di sicuro morirono in Persia, martiri della fede e i loro corpi furono sepolti in un'unica tomba, all'inizio del IV secolo, a Costantinopoli. "Una leggenda racconta che le loro reliquie furono custodite nella basilica di Sant'Eustorgio dal IV al XII secolo. Le reliquie a S. Eustorgio Fu Eustorgio a riceverle in dono dall'imperatore Costantino nel 325, quando si recò nella capitale dell'impero d'Oriente per ricevere la consacrazione a Vescovo di Milano. Le spoglie furono trasportate fino a Milano in un sarcofago molto pesante, lo stesso che ancora oggi vediamo nella basilica di S. Eustorgio con la scritta "Sepulchrum Trium Magorum" . Quando i viandanti arrivarono in città, la fatica rese impossibile trasportare oltre Porta Ticinese il ponderoso sarcofago; allora Eustorgio, saggiamente, ordinò che in quel luogo venisse costruita la basilica dei Re Magi, dove vennero deposte le sacre reliquie. "Lì rimasero fino al XII secolo, finché non furono rubate. Era il giorno il 10 giugno 1164, dopo la famigerata distruzione della città ordinata da Federico Barbarossa. Le spoglie trafugate furono portate a Colonia e deposte con grande solennità in un'urna d'argento intarsiata, nella chiesa di San Pietro. Ma i Milanesi non si rassegnarono mai alla perdita del sacro tesoro, tanto più che consideravano le ossa dei Magi miracolose contro i mali e i sortilegi. Fu Ludovico il Moro a chiederne per primo la restituzione nel 1494, e coinvolse nell'impresa anche Papa Alessandro VI, senza però ottenere nulla; neppure re Filippo di Spagna, Pio IV, Gregorio XIII e Federico Borromeo riuscirono ad avere soddisfazione. "Solo il Cardinal Ferrari, nel 1903, riuscì ad ottenere in restituzione qualche ossicino, che tuttora è custodito dentro un piccolo scrigno, posto in una cavità della parete, sopra l'altare dei Magi nella basilica di S. Eustorgio. Gli stemmi di Milano
Postato da Grazia01 il Domenica, 26 marzo @ 12:32:11 CEST (1270 letture)
![]() Riccardo Cocciante
Postato da Grazia01 il Venerdì, 24 marzo @ 15:02:15 CET (1297 letture)
![]() ![]() Cervo a Primavera Io rinascerò cervo a primavera oppure diverrò gabbiano da scogliera senza più niente da scordare senza domande più da fare con uno spazio da occupare e io rinascerò amico che mi sai capire e mi trasformerò in qualcuno che non può più fallire una pernice di montagna che vola eppur non sogna in una foglia o una castagna e io rinascerò amico caro amico mio e mi ritroverò con penne e piume senza io senza paura di cadere intento solo a volteggiare come un eterno migratore... Senza paura di cadere intento solo a volteggiare come un eterno migratore e io rinascerò senza complessi e frustrazioni amico mio ascolterò le sinfonie delle stagioni con un mio ruolo definito così felice d'esser nato fra cielo terra e l'infinito ah... e io rinascerò senza complessi e frustrazioni amico mio ascolterò le sinfonie delle stagioni con un mio ruolo definito così felice d'esser nato fra cielo terra e l'infinito ah... e io rinascerò io rinascerò na na na na na Un buco nel cuore Io senza di te Io senza di te Uno scherzo non e' Mi ritrovo cosi' Con un buco nel cuore Senza voglia di andare E nemmeno di stare Con l'odore del mare Dentro il naso E piu' in giu' Nelle pieghe dell'anima Che ricorda e fa male Dio, com'era amaro il sale Mi ritrovo cosi' Senza ali ne' mani Pero' ancora non vinto Aspettando domani Qualcosa, un evento, Un incontro, qualcuno No, non si puo' vivere Senza mai nessuno che Ti prenda in giro dolcemente La padrona prepotente Nella mente che si siede Dentro al cuore e dirige Un'orchestra sempre in festa Sempre in festa Una festa con te Con le luci e la gente Io felice di niente Il ricordo fa male Dio, com'era amaro il sapore del sale per me Io senza di te Io senza di te Uno scherzo non e' E mi ritrovo cosi' Con un buco nel cuore Senza ali ne' mani Pero' ancora non vinto Dio, com'era amaro il sale Senza di te Io senza di te Uno scherzo non e' Io senza di te Dio, com'era amaro il sapore del sale per me Tu sei il mio amico carissimo Perché l'agonismo che è dentro di noi non diventi egoismo né frattura mai difendiamo ogni istante la nostra lealtà sono certo - ci credo - e così sarà Pericoli tanti e tante gelosie rabbie, impazienza, piccole manie ti manderò all'inferno e così farai tu ma saremo poi amici ancora di più un po' più alti, una spanna in sù Tu sei il mio amico carissimo non tradirmi mai né soldi, né donne, né politica potranno dividerci tu sei il mio amico carissimo non tradirmi mai... Tifosi avversari senza tregua ormai nemici magari per una sera e poi sicuri che quando emergenza verrà un aiuto ognuno di noi due darà gli ostacoli sono vivificanti follie e le discussioni senza mai bugie ti manderò all'inferno e così farai tu ma saremo poi amici ancora di più un po' più alti, una spanna in su Celeste nostalgia Avevi ragione tu mia cara la vita non dura mai, una sera il tempo di una follia che breve poi fugge via e poi cosa rimane dentro noi questa celeste nostalgia questo saperti da sempre ancora ancora mia mia... Il bene profondo non si offende si spegne se è il caso e poi si accende passione violenta sia comprendimi amica mia tu puoi tutto normale tra di noi cara celeste nostalgia dolce compagna di storie d'amore sempre mia sempre mia Vedete un'estate sopra un treno partire su un auto e andar lontano quel lampo negli occhi, ciao! fa male d'accordo, ciao ma tu dentro di me non muori più azzurra celeste nostalgia qualche parola affettuosa un po' contro però per noi, forse no... Amore più grande amica mia cara celeste nostalgia un'ora, un giorno, una vita che cosa vuoi che sia che sia Amore più grande amica mia cara celeste nostalgia un'ora, un giorno, una vita che cosa vuoi che sia Un nuovo amico Non dico che dividerei una montagna ma andrei a piedi certamente a bologna per un amico in piu' per un amico in piu' perche' mi sento molto ricco e molto meno infelice e vedo anche quando c'e' poca luce con un amico in piu' con il mio amico in piu' non farci caso tutto passa hanno tradito anche me almeno adesso tu sai bene chi e' piccolo grande aiuto discreto amico muto il lavoro cosa vuoi che sia mai un giorno bene un giorno male lo sai da retta un poco a me giochiamo a briscola non posso certo diventare imbroglione ma passerei qualche notte in prigione per un amico in piu' per un amico in piu' perche' mi tiene ancor piu'caldo di un pullover di lana a volte e' meglio di una bella sottana un caro amico in piu' un caro amico in piu' e se ti sei innamorato di lei io rinuncio anche subito sai forse guadagno qualcosa di piu' un nuovo amico tu perche un amico se lo svegli di notte e' capitato gia esce in pigiama e prende anche le botte e poi te le rida' ah na na na na na ah na na na na na na (Instrumental) per un amico in piu' per un amico in piu' per un amico in piu' per un amico in piu' capelli grigi si qualcuno ne hai e' meglio avremo un po' piu'tempo vedrai divertendoci come non mai ancora insieme noi non dico che divederei una montagna per un amico in piu' ma andrei a piedi certamente a bologna per un amico in piu' ah na na na na na ah na na na na na na forse guadagno qualche cosa di piu' un vero amico Margherita Io non posso stare fermo con le mani nelle mani, tante cose devo fare prima che venga domani... E se lei già sta dormendo io non posso riposare, farò in modo che al risveglio non mi possa più scordare. Perché questa lunga notte non sia nera più del nero, fatti grande, dolce Luna, e riempi il cielo intero... E perché quel suo sorriso possa ritornare ancora, splendi Sole domattina come non hai fatto ancora... E per poi farle cantare le canzoni che ha imparato, io le costruirò un silenzio che nessuno ha mai sentito... Sveglierò tutti gli amanti parlerò per ore ed ore, abbracciamoci più forte perché lei vuole l'amore. Poi corriamo per le strade e mettiamoci a ballare, perché lei vuole la gioia, perché lei odia il rancore, poi con secchi di vernice coloriamo tutti i muri, case, vicoli e palazzi, perché lei ama i colori, raccogliamo tutti i fiori, che può darci Primavera, costruiamole una culla, per amarci quando è sera. Poi saliamo su nel cielo e prendiamole una stella, perché Margherita è buona, perché Margherita è bella, perché Margherita è dolce, perché Margherita è vera, perché Margherita ama, e lo fa una notte intera. Perché Margherita è un sogno, perché Margherita è sale, perché Margherita è il vento, e non sa che può far male, perché Margherita è tutto, ed è lei la mia pazzia. Margherita, Margherita, Margherita adesso è mia, Margherita è mia... A mano a mano A mano a mano ti accorgi che il vento Ti soffia sul viso e ti ruba un sorriso La vecchia stagione che sta per finire Ti soffia sul cuore e ti ruba l'amore A mano a mano si scioglie nel pianto Quel dolce ricordo sbiadito dal tempo Di quando vivevi con me in una stanza Non c'erano soldi ma tanta speranza E a mano a mano mi perdi e ti perdo E quello che è stato ci sembra più assurdo Di quando la notte eri sempre più vera E non come adesso nei sabato sera.... Ma...dammi la mano e torna vicino Può nascere un fiore nel nostro giardino Che neanche l'inverno potrà mai gelare Può crescere un fiore da questo mio amore per te E a mano a mano vedrai che nel tempo Lì sopra il tuo viso lo stesso sorriso Che il vento crudele ci aveva rubato Che torna fedele L'amore è tornato da te.... La storia di Colapisci
Postato da Grazia01 il Giovedì, 23 marzo @ 20:51:39 CET (4808 letture)
![]() ![]() C'era una volta, un pescatore siciliano di nome Cola (Nicola). Passava le sue giornate sempre a contatto col mare ed era talmente bravo nello stare in acqua ed immeggersi che lo soprannominarono "pisci" (pesce). Colapisci, disincagliava le reti dei pescatori, li informava se stava per giungere una tempesta, portava messaggi da Messina a Reggio e viceversa. La fama per le sue imprese marine era giunta persino all'orecchio dell'imperatore di Sicilia (Federico II). Un giono l'imperatore volle mettere alla prova con una gara le straordinarie doti di Colapisci, al termine della quale avrebbe potuto sposare la figlia. L'imperatore impegnò Colapisci nel recupero di un'anello gettato in fondo al mare a varie profondità e per ben tre volte Colapisci recuperò l'anello. Ogni volta che Colapisci risaliva dal fondo dei mari, raccontava delle meraviglie marine che riusciva a vedere. Tesori, gemme, ori e argenti riposavano sul fondo del mare e facevano da casa ai mille e mille pesci di tutti i colori che vi abitavano. Ma la terza volta che risalì, dopo aver recuperato l'anello, raccontò al suo imperatore che una delle tre colonne che sorreggono la Sicilia, era lesionata per colpa di un fuoco sottomarino che la stava distruggendo e che rischiava di far inabissare l'intera isola. Fu così che Colapisci si rituffo in mare per appoggiarsi e sorreggere la colonna. Da allora Colapisci non conparve più a galla e si dice che ancora oggi stia sostenendo la Sicilia sul fondo del mare, impedendole di sprofondare. Mi presento
Postato da Grazia01 il Giovedì, 23 marzo @ 13:57:05 CET (1145 letture)
![]() ![]() Un granello di sabbia perso Una goccia scivolata via Un sussurro di vento Un'onda solitaria. Una parola sbagliata Un bacio dolce Una lacrima segreta Un tremolio della voce. Un attimo sfuggente Una carezza mia Un pensiero nella mente Una nascosta via. Ecco, questo sono io Misteriosa e irraggiungibile Taciturna e dura Ma molto fragile. Spalato Smile
Postato da Grazia01 il Mercoledì, 22 marzo @ 14:38:27 CET (1182 letture)
Il lago triste
Postato da Grazia01 il Mercoledì, 22 marzo @ 14:30:23 CET (2903 letture)
![]() ![]() Guardo l’ondeggiare del lago, che sento pervaso dalla malinconia, da un vapore nostalgico, quasi avesse la consapevolezza dell’inarrestabile fluire del tempo, dell’eterno svolgersi delle stagioni e la scomparsa degli uomini. Il salire lento delle colline e poi i monti, ancora con le cime imbiancate, che chiudono quasi in tondo e accerchiano l’antica geometria delle sue sponde sdraiate, così ridenti col tempo sereno. Piccole onde neghittose scuriscono la ghiaia sulla spiaggia Il cielo plumbeo, quest’aria umida, tingono tutto di un colore pesante. E’ triste stasera il lago, la primavera seppur già iniziata, sembra qui ancora lontana. Un'aria fredda penetra gli abiti, e sento dei brividi, è tardi il suono lontano di un campanile mi ripete che è tardi, ma resto davanti a questo panorama, una languida sensazione di mestizia mi ha invaso, ma non la scaccio, anzi la prolungo, la voglio vivere, sento di condividere con la natura, la solennità atavica di questa atmosfera. Grazia Primi in Europa per l'amianto
Postato da Grazia01 il Mercoledì, 22 marzo @ 09:45:52 CET (1323 letture)
![]() ![]() Forse non tutti sanno che il comune di Paese in provincia di Treviso ospita la più grande discarica d’amianto d’Europa. Lo smaltimento dell’amianto ha un costo superiore a 50 milioni di euro all’anno. La discarica è stata autorizzata nel 2004 dalla provincia di Treviso senza la Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) nonostante sia obbligatoria per tutte le nuove discariche e per i rinnovi di quelle vecchie. La discarica ha una capacità di 460.000 metri cubi d’amianto e si trova a poche centinaia di metri da centri abitati. Le fibre di amianto sono quasi invisibili, così sottili che ce ne vogliono 335.000 per fare il diametro di un capello, e causano il mesotelioma pleurico, altrimenti detto cancro ai polmoni. L’incubazione può durare fino a 40 anni e il picco della mortalità è previsto tra il 2013 e il 2015. Vista la situazione senza speranza della provincia di Treviso ne approfitterei per costruirvi qualche inceneritore e una discarica di scorie nucleari. Ovviamente senza la valutazione di impatto ambientale, come da tradizione locale. Per gli altri cittadini un consiglio: se il vostro vicino ha un tetto d’amianto sul garage non denunciatelo. Se lo fate, oltre a inalare polveri sottili all’atto della rimozione, le farete inalare a tutta l’Italia direttamente dal Tir diretto a Treviso. Una ragazza coraggiosa (una favola... ma non troppo) - Spalato
Postato da Grazia01 il Martedì, 21 marzo @ 14:36:23 CET (1371 letture)
![]() ![]() Un giorno Perla si era svegliata presto, troppo presto, quasi nello stesso tempo in cui il sole ha aperto i suoi occhi. Una luce felpata entrava nella sua camera. Si sentiva l’allegro canto degli uccellini portato dalla brezza profumata. Perla era pensierosa, non si ricordava cosa aveva sognato ma sentiva che il sogno era piacevole. Sì, il sogno era piacevole ma tutto il resto com’ era? Era una ragazzina come tante altre, non tanto bella ma piacevole da guardare. Era piena di vita e aveva dei sogni nel cassetto. Sognava spesso di avere una sua famiglia con un Principe Azzurro o almeno un Cavaliere, non importava, era importante solo che Lui fosse buono di cuore com’era lei. Gli amici l’aspettavano per andare al mare. Era un’estate calda, afosa e anche le ombre si nascondevano dal sole rovente. Di corsa avevano fatto quel pezzo di strada fino al mare. Il mare dormiva ancora e scintillava sotto i raggi del sole. Regnava un strano silenzio rotto solo dai canti delle cicale e dalle allegre risate dei ragazzi. Tutti si tuffarono nel mare. Non si accorsero che una ragazzina era rimasta seduta sullo scoglio con uno sguardo triste e pensieroso. Era un’amica nuova e non sapeva nuotare. Alla fine l’avevano convinta ad entrare in acqua. Camminava piano tutta impaurita e quando aveva cominciato a divertirsi con le piccole onde che le facevano il solletico un urlo terrorizzato le uscì dalla gola. Aveva perso il contatto con il fondo. Aveva messo il piede in una buca e presa dal panico stava annegando. Tutti la guardavano e aspettavano che si riprendesse. Solo Perla si era accorta della vera situazione. Vedeva il terrore negli occhi della ragazzina e con due bracciate si era avvicinata. Parlava con voce calma e tendeva la mano all’amica. Si era avvicinata ancora un po’ e si era trovata all’improvviso sott’acqua stretta dalle mani della amica. "Calma" ripeteva a se stessa Perla, "calma, non devi lasciarti prendere dal panico". Perla era sempre coraggiosa ma in quel momento cominciava ad avere paura. Con un ultimo sforzo era riuscita a spingere l’amica verso la costa e quella l’aveva lasciata alle sue spalle. Finalmente libera Perla poteva respirare. Nessuno aveva detto una parola per il suo coraggio. Perla non si sentiva un’eroina, Per lei era una cosa normale quello che aveva fatto. Il tempo correva in fretta e un giorno Perla era diventata una giovane donna. La sua vita non era cambiata molto. I sogni nel cassetto erano rimasti gli stessi. Si sentiva tanto sola pur avendo tanti amici. Aveva fatto un lungo viaggio cercando il suo Principe. Finalmente, "eccolo, è lui" aveva detto Perla tutta contenta. Sembrava che Eros fosse l’uomo dei suoi sogni. Non era un bel uomo ma era tanto buono. Riempiva Perla di amore e la faceva sentire come una regina. Un giorno aveva portato Perla nel suo castello. "Che vita bella", pensava Perla, "ho tutto e anche un uomo che mi ama veramente". Non si era accorta che Eros aveva cominciato a cambiare il suo atteggiamento. Non si era accorta che stava vivendo in una gabbia d’oro. Non si era accorta che Eros era in realtà un Mostro. Un giorno Perla si era svegliata presto, troppo presto, quasi nello stesso tempo in cui il sole ha aperto i suoi occhi. Una luce felpata entrava nella sua camera ma non si sentiva l’allegro canto degli uccellini portato dalla brezza profumata. La gabbia d’oro di Perla era chiusa a chiave. Il Mostro l’aveva fatta sua prigioniera, sua schiava. Più piccola si sentiva Perla, più grande si sentiva il Mostro. L’unica salvezza per Perla erano i ricordi, le fantasie e i sogni. Quelle cose il Mostro non poteva prenderle. Si ricordava spesso di un momento della sua vita. Era successo in una terra lontana. Si era sentito un grande boato e le fiamme alte si alzavano verso il cielo. Correvano tutti per aiutare a spegnere il fuoco ma si fermavano alla vista di una bombola di gas che fischiava minacciosa. Perla non aveva paura. Correva verso la bombola tra le grida della gente che voleva fermarla. Non c’era tempo da perdere. Era riuscita a chiudere la valvola e piano si era avvicinata alla porta dove era rimasta in silenzio. Sentiva l’applauso della gente ma per lei non era importante. Per lei era una cosa normale quello che aveva fatto. Era abituata a salvare tante vite. Ma chi salverà la sua? In rari momenti Eros diceva: "Non lasciarmi, ti amo tanto e non posso vivere senza di te". Ma subito dopo il Mostro gridava: "Non lasciarmi, perderò tutti i miei poteri senza di te". Perla era tanto confusa. Voleva credere alle parole di Eros ma le parole del Mostro le rimbombavano sempre più spesso nella mente. Un giorno Perla si era svegliata presto, troppo presto, quasi nello stesso tempo in cui il sole ha aperto i suoi occhi. Una luce felpata entrava nella sua camera. Si sentiva l’allegro canto degli uccellini in lontananza. "Posso raggiungerli?" pensava ad alta voce, "devo scappare, subito!" "Non lasciarmi", sentiva la voce di Eros. "Non lasciarmi", sentiva la voce del Mostro. Ancora era indecisa. L’amore verso Eros la bloccava ma la voglia di libertà la spingeva avanti. "Lasciatemi in pace tutti e due", implorava piangendo. Si chiedeva dove fosse finito il suo coraggio. Anche quello le aveva rubato il Mostro? "Corri, corri", ripeteva Perla vagando nella foresta buia, "la’ in fondo vedo una luce". La gente racconta che Perla stia ancora vagando nella foresta buia ma adesso ha una lampada con se’. …Se il male non si può sconfiggere dal male si può scappare. Spalato Una partita a scacchi - Spalato
Postato da Grazia01 il Martedì, 21 marzo @ 14:23:32 CET (1172 letture)
![]() ![]() Mi fa tanto male il ginocchio. Sono a letto e sto piangendo. Vedo mia madre preoccupata. “Come stai?” mi chiede. “Ho tanto male e ho finito tutte le lacrime per piangere” rispondo.”Ho freddo” Lei si allontana e io mi trovo in un posto pieno di colori. Sto correndo. Cammino sopra le nuvole e tutto è morbido. C’è uno strano silenzio e allo stesso tempo sento il canto degli uccelli e anche il rumore dei lavori che mia madre sta facendo. Tutto è enorme, non esistono le cose piccole. Le mie dita cono grosse e buffe e non riesco raccogliere un fiore. All’improvviso mi trovo davanti ad un albero di fico. I frutti maturi mi chiamano. Scavalco il muro di cemento e la rete spinata. Mi arrampico ma un ramo spezzato mi graffia la gamba. Ricomincio a piangere e mia madre ricompare. Ho paura di dirle che mi sono arrampicata su un albero ma sono sicura che è colpa di quel ramo il dolore che ho. È tanto bello dormire sopra una nuvola grossa e bianca. Tante stelle brillano attorno e la loro luce mi dà fastidio. Sento una mano fredda appoggiarsi sopra la mia fronte. “Dov’è il termometro?” è la voce di mia madre ma mi sembra lontanissima. Quella mano fredda mi fa perdere l’equilibrio e comincio a cadere. È un volo eterno ma non ho paura. Qualcuno mi alza il braccio e questo ferma la mia caduta. Sto nuotando adesso. Piccole onde mi cullano. Ancora una volta qualcuno mi alza il braccio. “Quanta febbre ha?” “ 40” Ma chi ha la febbre? Non importa, io sto correndo dietro le farfalle. Non ne ho viste mai così tante. I colori delle loro ali si fondono. “Vado a chiamare il dottore” Quella sembra la voce di mia madre. Ancora una volta uno strano silenzio mi avvolge. Tutti i rumori vengono da lontanissimo e sembrano avvolti nel cotone. Apro gli occhi e mi trovo a letto. Ma allora sono io malata? Un cavallo bianco corre veloce e felice. Tutto si sposta, tutto corre. La giostra gira senza la musica. Io volo e dall’alto osservo tutto. “Quanti anni ha la bambina?” chiede una voce molto profonda e maschile. “ 12 “ risponde mia madre. Anch’io ho 12 anni, ma di chi stanno parlando? “Signora, è molto grave. Chiamo un’ambulanza per portare la bambina all’ospedale” I fichi maturi mi chiamano e senza problema mi arrampico. Allungo una mano e all’improvviso cado in un buco nerissimo. In lontananza si sente la sirena dell’ambulanza. Scacco matto ragazzina. Spalato La prima tazzina di caffè
Postato da Grazia01 il Martedì, 21 marzo @ 14:03:34 CET (2065 letture)
![]() Sapete dove e quando è stata preparata in italia la prima tazzina di caffè ? Nel 1683 a Venezia, in Piazza San Marco, sotto le Arcate della Procuratie, fu aperta la prima "bottega del caffè". Da allora nuove botteghe sorsero ovunque in città (nel 1763 se ne contavano 218!), divenendo luoghi di incontro per discutere di affari, per fare quattro chiacchiere. La nuova usanza dilagò ben presto in tutta l'Italia: a Torino, Genova, Milano, Firenze e Roma sorsero caffè poi divenuti celebri e importanti centri culturali, punto di incontro di scrittori, politici e studiosi d'ogni tempo. Anche i Francesi mostrarono di gradire molto la nuova bevanda: si dice che il celebre scrittore Balzac, arrivasse a berne cinquanta tazzine al giorno ! In Inghilterra il primo locale per la mescita del caffè fu aperto a Oxford. Insomma, verso la metà del '700, in tutta l'Europa e in America già si beveva caffè. Riflessioni ° 3
Postato da Grazia01 il Martedì, 21 marzo @ 13:52:06 CET (1317 letture)
![]() E' volere tutto ciò che si fa". Nietzsche "Ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per compiere i miracoli della Cosa-Una (di una cosa sola)". Ermete Trismegisto Se dovessi pensare all'uomo come l'immagine di Dio, non saprei che cosa pensare di Dio... Konrad Lorenz "Non è tanto importante quello che ci accade, quanto il modo con cui vi reagiamo". Hans Selye "Tutto il mondo intero aspira alla libertà, tuttavia ciascuna creatura è innamorata delle proprie catene. Tale è il primo paradosso ed il nodo inestricabile della nostra natura". Aurobindo "Per quanto una persona possa essere ornata di gioielli, il cuore può tuttavia aver vinto i sensi. La forma esteriore non costituisce la religione e non tocca la mente". Buddha "La mia felicità consiste nel sapere che provengo dal principio, nel contemplare lo yin e lo yang, nell'osservare il succedersi delle stagioni, l'alternarsi del giorno e della notte, e nel sapere che al principio farò ritorno". Chuang-tzu "Mentre discordavano sulla maniera con cui dovesse essere concepito e venerato il nume, tutte le religioni convenivano sul fatto di dover perseguitare, opprimere e distruggere quelli che erano di religione diversa, di dover vendicare con il risentimento più atroce le offese, e di nutrir un odio implacabile verso tutto il resto del genere umano" G. Ortes "Chi disse vox populi vox Dei, o mirava ad imbrogliare le carte adulando il volgo, o aveva di Dio un'idea molto infelice" A. Gabelli "Ma se i buoi, i cavalli e i leoni avessero le mani, o potessero disegnare con le mani, e fare opere come quelle degli uomini, raffigurerebbero gli dei, il cavallo simili ai cavalli, il bue ai buoi, e farebbero loro dei corpi come quelli che ha ciascuno di loro" Senofane "Se non conosci bene te stesso, come fai a conoscere un altro? E quando conosci te stesso, tu sei l'altro." Nisargadatta Maharaj "Come fiamma più cresce più contesa dal vento, ogni virtù, che il cielo esalta, tanto più splende quant'è più offesa" Michelangelo Buonarroti Riflessioni * 2
Postato da Grazia01 il Martedì, 21 marzo @ 13:46:50 CET (1591 letture)
![]() Gregory Bateson "Pensare è un'arte che s’impara come tutte le altre e anche con maggiore difficoltà". J.J. Rousseau "Cos'è tutto questo affannarsi per il denaro, e tormentarsi per questo mondo? Hai mai visto qualcuno che sia vissuto eterno? Questi uno o due soffi di vita che sono nel tuo corpo, sono un imprestito: a mo' d'imprestito bisogna vivere. Omar Khayyàm "Oh Grande Spirito, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare, e la saggezza di capirne la differenza". preghiera Cherokee Hanno detto: "Da ogni parte c'è la luce di Dio". Ma gridano gli uomini tutti: "Dov'è quella luce?". L'ignaro guarda a ogni parte, a destra, a sinistra; ma dice una Voce: "Guarda soltanto, senza destra e sinistra!". Gialâl ad-Dîn Rûmî "Chi sa non parla; chi parla non sa. Confondendosi esteriormente con l’uomo comune, l’uomo reale è al di là dell’onore e al di là del disprezzo: per questo è ciò che di più alto vi è al mondo". Lao-Tzû "La religione è un'illusione, e deriva la sua forza dal fatto che corrisponde ai nostri desideri istintuali" S. Freud "Una società di atei inventerebbe subito una religione" H. de Balzac "Quando c’è l’Amore voi non siete; quando voi siete non c’è l’Amore. Quando c’è il sé non c’è Dio, quando il sé scompare c’è Dio". Krishnamurti "Che cosa è il nostro concetto di Dio se non la personificazione dell'inconcepibile?" G. C. Lichtenberg "Gli stolti non si curano solo del dovere da compiere o dello scopo che dovrebbero raggiungere, ma pensano a se stessi soltanto. Ogni cosa è solo un piedistallo per la loro vanità". Buddha "Non c'è niente di più profondo di ciò che appare in superficie". G. W. F. Hegel Se esiste un uomo non violento, perché non può esistere una famiglia non violenta? E perché non un villaggio? una città, un paese, un mondo non violento? Gandhi Riflessioni * 1
Postato da Grazia01 il Martedì, 21 marzo @ 13:43:26 CET (1407 letture)
![]() nel credere che bisogna lasciare un segno di noi nel passaggio sulla terra e sentire fino in fondo le proprie responsabilità terrene". Francesca Sanvitale "E' un peccato il non fare niente col pretesto che non possiamo fare tutto". Winston Churchill "Una volta che ti rendi conto che il mondo è una tua proiezione, ne sei libero..." Nisargadatta Maharaj "Bisogna essere di mente aperta, ma non tanto da far cadere il cervello". Piero Angela "Perché si uccidono le persone che hanno ucciso altre persone? Per dimostrare che le persone non si debbono uccidere?" Norman Mailer "La vita e la morte confluiscono in uno, e non c'è né evoluzione né destino; soltanto essere". Albert Einstein Il pensiero si manifesta nella parola; la parola si manifesta nell'atto; l'atto si sviluppa in abitudine; e l'abitudine si solidifica in carattere. Sorveglia quindi con cura il pensiero e le sue strade, e fa che esso sgorghi dall'amore nato dalla premura per tutti gli esseri. Buddha "La nostra psiche è costituita in armonia con la struttura dell'universo, e ciò che accade nel macrocosmo accade egualmente negli infinitesimi e più soggettivi recessi dell'anima". Carl Gustav Jung "Colui che conosce gli altri è sapiente; colui che conosce se stesso è illuminato. Colui che vince un altro è potente; colui che vince se stesso è superiore". Lao-Tzû Un saggio disse ai suoi discepoli: "spiegate questo mio gesto!" e gettò a terra il suo bastone. Quelli andarono e tornarono da lui con mille spiegazioni, ma nessuno lo accontentò. I discepoli perplessi gli chiesero quale fosse allora la vera interpretazione: il saggio prese il suo bastone e di nuovo lo gettò a terra. Anonimo "Non vi è nulla di nascosto che non debba essere rivelato. Né cosa segreta che non venga alla luce". Matteo, cap. X, v. 26 - Marco, cap. IV, v. 22 Luca, cap. VIII, v. 17 - cap. XII, v. 2 "È mondanità quando si abbandona il mondo, ma interiormente si è parte di quel mondo di invidia, cupidigia, paura; si accetta l’autorità e la divisione fra colui che sa e colui che non sa". Krishnamurti "Tutte le cose erano insieme; poi venne la mente e le dispose in ordine". Anassagora "Sulle ginocchia dei genitori eri un neonato che piangeva, mentre tutti intorno a te sorridevano. Vivi, dunque, affinché scivolando nel tuo ultimo lungo sonno, tu possa sorridere mentre tutti intorno a te piangeranno". Hafiz "La scienza ha radici nell'immanente, ma porta l'uomo verso il trascendente". Papa Giovanni Paolo II (1920 - 2005) Frase incisa sul lucernario della Basilica di S. Maria degli Angeli e dei Martiri Padre, se anche tu non fossi il mio -Camillo Sbarbaro
Postato da Grazia01 il Martedì, 21 marzo @ 11:20:39 CET (11211 letture)
![]() Padre se anche fossi a me un estraneo, per te stesso egualmente t'amerei. Ché mi ricordo d'un mattin d'inverno Che la prima viola sull'opposto Muro scopristi dalla tua finestra E ce ne desti la novella allegro. Poi la scala di legno tolta in spalla Di casa uscisti e l'appoggiasti al muro. Noi piccoli stavamo alla finestra. E di quell'altra volta mi ricordo Che la sorella mia piccola ancora Per la casa inseguivi minacciando (la caparbia aveva fatto non so che). Ma raggiuntala che strillava forte Dalla paura ti mancava il cuore: ché avevi visto te inseguir la tua piccola figlia, e tutta spaventata tu vacillante l'attiravi al petto, e con carezze dentro le tue braccia l'avviluppavi come per difenderla da quel cattivo che eri il tu di prima. Padre, se anche tu non fossi il mio Padre, se anche fossi a me un estraneo, fra tutti quanti gli uomini già tanto pel tuo cuore fanciullo t'amerei. Camillo Sbarbaro Distrazione di Luigi Pirandello
Postato da Grazia01 il Lunedì, 20 marzo @ 23:35:44 CET (3070 letture)
![]() Tutte quelle case nuove, per la maggior parte non ancora abitate, pareva guardassero coi vani delle finestre sguarnite quel carro nero. Fatte da così poco apposta per accogliere la vita, invece della vita - ecco qua - la morte vedevano, che veniva a far preda giusto lì. Prima della vita, la morte. E se n'era venuto lentamente, a passo, quel carro. Il cocchiere, che cascava a pezzi dal sonno, con la tuba spelacchiata, buttata a sghembo sul naso, e un piede sul parafango davanti, al primo portone che gli era parso accostato in segno di lutto, aveva dato una stratta alle briglie, l'arresto al manubrio della martinicca, e s'era sdraiato a dormire più comodamente su la cassetta. Dalla porta dell'unica bottega della via s'affacciò, scostando la tenda di traliccio, unta e sgualcita, un omaccio spettorato, sudato, sanguigno, con le maniche della camicia rimboccate su le braccia pelose. - Ps!- chiamò, rivolto al cocchiere. - Ahò! Più là... Il cocchiere reclinò il capo per guardar di sotto la falda della tuba posata sul naso; allentò il freno; scosse le briglie sul dorso dei cavalli e passò avanti alla drogheria, senza dir nulla. Qua o là, per lui, era lo stesso. E davanti al portone, anch'esso accostato della casa più in là, si fermò e riprese a dormire. - Somaro! - borbottò il droghiere, scrollando le spalle. - Non s'accorge che tutti i portoni a quest'ora sono accostati. Dev'essere nuovo del mestiere. Così era veramente. E non gli piaceva per nientissimo affatto, quel mestiere, a Scalabrino. Ma aveva fatto il portinaio, e aveva litigato prima con tutti gl'inquilini e poi col padron di casa; il sagrestano a San Rocco, e aveva litigato col parroco; s'era messo per vetturino di piazza e aveva litigato con tutti i padroni di rimessa, fino a tre giorni fa. Ora, non trovando di meglio in quella stagionaccia morta, s'era allogato in una Impresa di pompe funebri. Avrebbe litigato pure con questa - lo sapeva sicuro - perché le cose storte, lui, non le poteva soffrire. E poi era disgraziato, ecco. Bastava vederlo. Le spalle in capo; gli occhi a sportello; la faccia gialla, come di cera, e il naso rosso. Perché rosso, il naso? Perché tutti lo prendessero per ubriacone; quando lui neppure lo sapeva che sapore avesse il vino. - Puh! Ne aveva fino alla gola, di quella vitaccia porca. E un giorno o l'altro, l'ultima litigata per bene l'avrebbe fatta con l'acqua del fiume, e buona notte. Per ora là, mangiato dalle mosche e dalla noia, sotto la vampa cocente del sole, ad aspettar quel primo carico. Il morto. O non gli sbucò, dopo una buona mezz'ora, da un altro portone in fondo, dall'altro lato della via? - Te possino... (al morto) - esclamò tra i denti, accorrendo col carro, mentre i becchini, ansimanti sotto il peso d'una misera bara vestita di mussolo nero, filettata agli orli di fettuccia bianca, sacravano e protestavano: - Te possino... (a lui) - Te pij n'accidente - 0 ch'er nummero der portone non te l'aveveno dato? Scalabrino fece la voltata senza fiatare; aspettò che quelli aprissero lo sportello e introducessero il carico nel carro. - Tira via! E si mosse, lentamente, a passo, com'era venuto: ancora col piede alzato sul parafango davanti e la tuba sul naso. Il carro, nudo. Non un nastro, non un fiore. Dietro, una sola accompagnatrice. Andava costei con un velo nero trapunto, da messa, calato sul volto; indossava una veste scura, di mussolo rasato, a fiorellini gialli, e un ombrellino chiaro aveva, sgargiante sotto il sole, aperto e appoggiato su la spalla. Accompagnava il morto, ma si riparava dal sole con l'ombrellino. E teneva il capo basso, quasi più per vergogna che per afflizione. - Buon passeggio, ah Rosi'! - le gridò dietro il droghiere scamiciato, che s'era fatto di nuovo alla porta della bottega. E accompagnò il saluto con un riso sguaiato, scrollando il capo. L'accompagnatrice si voltò a guardarlo attraverso il velo; alzò la mano col mezzo guanto di filo per fargli un cenno di saluto, poi l'abbassò per riprendersi di dietro la veste, e mostrò le scarpe scalcagnate. Aveva però i mezzi guanti di filo e l'ombrellino, lei. - Povero sor Bernardo, come un cane, - disse forte qualcuno dalla finestra d'una casa. Il droghiere guardò in su, seguitando a scrollare il capo. - Un professore, con la sola servaccia dietro... - gridò un'altra voce, di vecchia, da un'altra finestra. Nel sole, quelle voci dall'alto sonavano nel silenzio della strada deserta, strane. Prima di svoltare, Scalabrino pensò di proporre all'accompagnatrice di pigliare a nolo una vettura per far più presto, già che nessun cane era venuto a far coda a quel mortorio. - Con questo sole... a quest'ora... Rosina scosse il capo sotto il velo. Aveva fatto giuramento, lei, che avrebbe accompagnato a piedi il padrone fino all'imboccatura di via San Lorenzo. - Ma che ti vede il padrone? Niente! Giuramento. La vettura, se mai, l'avrebbe presa, lassù, fino a Campoverano. - E se te la pago io? - insistette Scalabrino. Niente. Giuramento. Scalabrino masticò sotto la tuba un'altra imprecazione e seguitò a passo, prima per il ponte Cavour, poi per Via Tomacelli e per Via Condotti e per Piazza di Spagna e Via Due Macelli e Capo le Case e Via Sistina. Fin qui, tanto o quanto, si tenne su, sveglio, per scansare le altre vetture, i tram elettrici e le automobili, considerando che a quel mortorio lì nessuno avrebbe fatto largo e portato rispetto. Ma quando, attraversata sempre a passo Piazza Barberini, imboccò l'erta via di San Niccolò da Tolentino, rialzò il piede sul parafango, si calò di nuovo la tuba sul naso e si riaccomodò a dormire. I cavalli, tanto, sapevano la via. I rari passanti si fermavano e si voltavano a mirare, tra stupiti e indignati. Il sonno del cocchiere su la cassetta e il sonno del morto dentro il carro: freddo e nel buio, quello del morto; caldo e nel sole, quello del cocchiere; e poi quell'unica accompagnatrice con l'ombrellino chiaro e il velo nero abbassato sul volto: tutto l'insieme di quel mortorio, insomma, così zitto zitto e solo solo, a quell'ora, bruciata, faceva proprio cader le braccia. Non era il modo, quello, d'andarsene all'altro mondo! Scelti male il giorno, l'ora, la stagione. Pareva che quel morto lì avesse sdegnato di dare alla morte una conveniente serietà. Irritava. Quasi quasi aveva ragione il cocchiere che se la dormiva. E così avesse seguitato a dormire Scalabrino fino al principio di Via San Lorenzo! Ma i cavalli, appena superata l'erta, svoltando per Via Volturno, pensarono bene d'avanzare un po' il passo; e Scalabrino si destò. Ora, destarsi, veder fermo sul marciapiedi a sinistra un signore allampanato, barbuto, con grossi occhiali neri, stremenzito in un abito grigio, sorcigno, e sentirsi arrivare in faccia, su la tuba, un grosso involto, fu tutt'uno! Prima che Scalabrino avesse tempo di riaversi, quel signore s'era buttato innanzi ai cavalli, li aveva fermati e, avventando gesti minacciosi, quasi volesse scagliar le mani, non avendo più altro da scagliare, urlava, sbraitava: - A me? a me? mascalzone! canaglia! manigoldo! a un padre di famiglia? a un padre di otto figliuoli? manigoldo! farabutto! Tutta la gente che si trovava a passare per via e tutti i bottegai e gli avventori s'affollarono di corsa attorno al carro e tutti gl'inquilini delle case vicine s'affacciarono alle finestre, e altri curiosi accorsero, al clamore, dalle prossime vie, i quali, non riuscendo a sapere che cosa fosse accaduto, smaniavano, accostandosi a questo e a quello, e si drizzavano su la punta dei piedi. - Ma che è stato? - Uhm... pare che... dice che... non so! - Ma c'è il morto? - Dove? - Nel carro, c'è? - Uhm!... Chi è morto? - Gli pigliano la contravvenzione! - Al morto? - Al cocchiere... - E perché? - Mah!... pare che... dice che... Il signore grigio allampanato seguitava intanto a sbraitare presso la vetrata d'un caffè, dove lo avevano trascinato; reclamava l'involto scagliato contro il cocchiere; ma non s'arrivava ancora a comprendere perché glielo avesse scagliato. Sul carro, il cocchiere cadaverico, con gli occhi miopi strizzati, si rimetteva in sesto la tuba e rispondeva alla guardia di città che, tra la calca e lo schiamazzo, prendeva appunti su un taccuino. Alla fine il carro si mosse tra la folla che gli fece largo, vociando; ma, come apparve di nuovo, sotto l'ombrellino chiaro, col velo nero abbassato sul volto, quell'unica accompagnatrice- silenzio. Solo qualche monellaccio fischiò. Che era insomma accaduto? Niente. Una piccola distrazione. Vetturino di piazza fino a tre giorni fa, Scalabrino, stordito dal sole, svegliato di soprassalto, s'era scordato di trovarsi su un carro funebre: gli era parso d'essere ancora su la cassetta d'una botticella e, avvezzo com'era ormai da tanti anni a invitar la gente per via a servirsi del suo legno, vedendosi guardato da quel signore sorcigno fermo lì sul marciapiede, gli aveva fatto segno col dito, se voleva montare. E quel signore, per un piccolo segno, tutto quel baccano... Luigi Pirandello Il treno ha fischiato di Luigi Pirandello
Postato da Grazia01 il Lunedì, 20 marzo @ 23:25:50 CET (13999 letture)
![]() S'era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s'allontanava nella notte. C'era, ah! c'era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c'era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s'avviava... Firenze, Bologna, Torino, Venezia... tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui!. E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr'egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato più! Il mondo s'era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell'arida, ispida angustia della sua computisteria... Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L'attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l'immaginazione d'improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari... Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C'erano, mentr'egli qua viveva questa vita «impossibile», tanti e tanti milioni d'uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch'egli qua soffriva, c'erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti Sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva così... c'erano gli oceani... le foreste... E, dunque, lui - ora che il mondo gli era rientrato nello spirito - poteva in qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l'immaginazione una boccata d'aria nel mondo. Gli bastava! Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S'era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d'un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro della troppa aria, lo sentiva. Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo-ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo-ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l'altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia... oppure... nelle foreste del Congo: - Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato... Luigi Pirandello Di sera, un geranio di Luigi Pirandello
Postato da Grazia01 il Lunedì, 20 marzo @ 23:20:32 CET (3712 letture)
![]() Dormiva, e non è piú nel suo corpo; non può dire che si sia svegliato; e in che cosa ora sia veramente, non sa; è come sospeso a galla nell'aria della sua camera chiusa. Alienato dai sensi, ne serba piú che gli avvertimenti il ricordo, com'erano; non ancora lontani ma già staccati: là l'udito, dov'è un rumore anche minimo nella notte; qua la vista, dov'è appena un barlume; e le pareti, il soffitto (come di qua pare polveroso) e giú il pavimento col tappeto, e quell'uscio, e lo smemorato spavento di quel letto col piumino verde e le coperte giallognole, sotto le quali s'indovina un corpo che giace inerte; la testa calva, affondata sui guanciali scomposti; gli occhi chiusi e la bocca aperta tra i peli rossicci dei baffi e della barba, grossi peli, quasi metallici; un foro secco, nero; e un pelo delle sopracciglia così lungo, che se non lo tiene a posto, gli scende sull'occhio. Lui, quello! Uno che non è piú. Uno a cui quel corpo pesava già tanto. E che fatica anche il respiro! Tutta la vita, ristretta in questa camera; e sentirsi a mano a mano mancar tutto, e tenersi in vita fissando un oggetto, questo o quello, con la paura d'addormentarsi. Difatti poi, nel sonno... Come gli suonano strane, in quella camera, le ultime parole della vita: - Ma lei è di parere che, nello stato in cui sono ridotto, sia da tentare un'operazione così rischiosa? - Al punto in cui siamo, il rischio veramente... - Non è il rischio. Dico se c'è qualche speranza. - Ah, poca. - E allora... - La lampada rosea, sospesa in mezzo alla camera, è rimasta accesa invano. Ma dopo tutto, ora s'è liberato, e prova per quel suo corpo là, piú che antipatia, rancore. Veramente non vide mai la ragione che gli altri dovessero riconoscere quell'immagine come la cosa piú sua. Non era vero. Non è vero. Lui non era quel suo corpo; c'era anzi così poco; era nella vita lui, nelle cose che pensava, che gli s'agitavano dentro, in tutto ciò che vedeva fuori senza piú vedere se stesso. Case strade cielo. Tutto il mondo. Già, ma ora, senza piú il corpo, è questa pena ora, è questo sgomento del suo disgregarsi e diffondersi in ogni cosa, a cui, per tenersi, torna a aderire ma, aderendovi, la paura di nuovo, non d'addormentarsi, ma del suo svanire nella cosa che resta là per sé, senza piú lui: oggetto: orologio sul comodino, quadretto alla parete, lampada rosea sospesa in mezzo alla camera. Lui è ora quelle cose; non piú com'erano, quando avevano ancora un senso per lui; quelle cose che per se stesse non hanno alcun senso e che ora dunque non sono piú niente per lui. E questo è morire. Il muro della villa. Ma come, n'è già fuori? La luna vi batte sopra; e giú è il giardino. La vasca, grezza, è attaccata al muro di cinta. Il muro è tutto vestito di verde dalle roselline rampicanti. L'acqua, nella vasca, piomba a stille. Ora è uno sbruffo di bolle. Ora è un filo di vetro, limpido, esile, immobile. Come chiara quest'acqua nel cadere! Nella vasca diventa subito verde, appena caduta. E così esile il filo, così rade a volte le stille che a guardar nella vasca il denso volume d'acqua già caduta è come un'eternità di oceano. A galla, tante foglioline bianche e verdi, appena ingiallite. E a fior d'acqua, la bocca del tubo di ferro dello scarico, che si berrebbe in silenzio il soverchio dell'acqua, se non fosse per queste foglioline che, attratte, vi fan ressa attorno. Il risucchio della bocca che s'ingorga è come un rimbrotto rauco a queste sciocche frettolose a cui par che tardi di sparire ingoiate, come se non fosse bello nuotar lievi e così bianche sul cupo verde vitreo dell'acqua. Ma se sono cadute! se sono così lievi! E se ci sei tu, bocca di morte, che fai la misura! Sparire. Sorpresa che si fa di mano in mano piú grande, infinita: l'illusione dei sensi, già sparsi, che a poco a poco si svuota di cose che pareva ci fossero e che invece non c'erano; suoni, colori, non c'erano; tutto freddo, tutto muto; era niente; e la morte, questo niente della vita com'era. Quel verde... Ah come, all'alba, lungo una proda, volle esser erba lui, una volta, guardando i cespugli e respirando la fragranza di tutto quel verde così fresco e nuovo! Groviglio di bianche radici vive abbarbicate a succhiar l'umore della terra nera. Ah come la vita è di terra, e non vuol cielo, se non per dare respiro alla terra! Ma ora lui è come la fragranza di un'erba che si va sciogliendo in questo respiro, vapore ancora sensibile che si dirada e vanisce, ma senza finire, senz'aver piú nulla vicino; sì, forse un dolore; ma se può far tanto ancora di pensarlo, è già lontano, senza piú tempo, nella tristezza infinita d'una così vana eternità. Una cosa, consistere ancora in una cosa, che sia pur quasi niente, una pietra. O anche un fiore che duri poco: ecco, questo geranio... - Oh guarda giú, nel giardino, quel geranio rosso. Come s'accende! Perché? Di sera, qualche volta, nei giardini s'accende così, improvvisamente, qualche fiore; e nessuno sa spiegarsene la ragione. Luigi Pirandello La giara di Luigi Pirandello
Postato da Grazia01 il Lunedì, 20 marzo @ 15:27:52 CET (6706 letture)
![]() - Sellate la mula! - Ora, invece: - Consultate il calepino! - E Don Lollò rispondeva:- Sicuro, e vi fulmino tutti, figli d'un cane! Quella bella giara nuova, pagata quattr'onze ballanti e sonanti, in attesa del posto da trovarle in cantina, fu allogata provvisoriamente nel palmento. Una giara così non s'era mai veduta. Allogata in quell'antro intanfato di mosto e di quell'odore acre e crudo che cova nei luoghi senz'aria e senza luce, faceva pena. .Da due giorni era cominciata l'abbacchiatura delle olive, e Don Lollò era su tutte le furie perché, tra gli abbacchiatori e i mulattieri venuti con le mule cariche di concime da depositare a mucchi su la costa per la favata della nuova stagione, non sapeva più come spartirsi, a chi badar prima. E bestemmiava come un turco e minacciava di fulminare questi e quelli, se un'oliva, che fosse un'oliva, gli fosse mancata, quasi le avesse prima contate tutte a una a una sugli alberi; o se non fosse ogni mucchio di concime della stessa misura degli altri. Col cappellaccio bianco, in maniche di camicia, spettorato, affocato in volto e tutto sgocciolante di sudore, correva di qua e di là, girando gli occhi lupigni e stropicciandosi con rabbia le guance rase, su cui la barba prepotente rispuntava quasi sotto la raschiatura del rasoio. Ora, alla fine della terza giornata, tre dei contadini che avevano abbacchiato, entrando nel palmento per deporvi le scale e le canne, restarono alla vista della bella giara nuova, spaccata in due, come se qualcuno, con un taglio netto, prendendo tutta l'ampiezza della pancia, ne avesse staccato tutto il lembo davanti. - Guardate! guardate!- Chi sarà stato?- Oh, mamma mia! E chi lo sente ora Don Lollò? La giara nuova, peccato! Il primo, più spaurito di tutti, propose di raccostar subito la porta e andare via zitti zitti, lasciando fuori, appoggiate al muro, le scale e le canne. Ma il secondo:- Siete pazzi? Con don Lollò? Sarebbe capace di credere che gliel'abbiamo rotta noi. Fermi qua tutti! Uscì davanti al palmento e, facendosi portavoce delle mani, chiamò:- Don Lollò! Ah, Don Lollòoo! Eccolo là sotto la costa con gli scaricatori del concime: gesticolava al solito furiosamente, dandosi di tratto in tratto con ambo le mani una rincalcata al cappellaccio bianco. Arrivava talvolta, a forza di quelle rincalcate, a non poterselo più strappare dalla nuca e dalla fronte. Già nel cielo si spegnevano gli ultimi fuochi del crepuscolo, e tra la pace che scendeva su la campagna con le ombre della sera e la dolce frescura, avventavano i gesti di quell'uomo sempre infuriato. - Don Lollò! Ah, Don Lollòoo! Quando venne su e vide lo scempio, parve volesse impazzire. Si scagliò prima contro quei tre; ne afferrò uno per la gola e lo impiccò al muro gridando: - Sangue della Madonna, me la pagherete! Afferrato a sua volta dagli altri due, stravolti nelle facce terrigne e bestiali, rivolse contro se stesso la rabbia furibonda, sbatacchiò a terra il cappellaccio, si percosse le guance, pestando i piedi e sbraitando a modo di quelli che piangono un parente morto: - La giara nuova! Quattr'onze di giara! Non incignata ancora! Voleva sapere chi gliel'avesse rotta! Possibile che si fosse rotta da sé? Qualcuno per forza doveva averla rotta, per infamità o per invidia! Ma quando? Ma come? Non gli si vedeva segno di violenza! Che fosse arrivata rotta dalla fabbrica? Ma che! Sonava come una campana! Appena i contadini videro che la prima furia gli era caduta, cominciarono ad esortarlo a calmarsi. La giara si poteva sanare. Non era poi rotta malamente. Un pezzo solo. Un bravo conciabrocche l'avrebbe rimessa su, nuova. C'era giusto Zi' Dima Licasi, che aveva scoperto un mastice miracoloso, di cui serbava gelosamente il segreto: un mastice, che neanche il martello ci poteva, quando aveva fatto presa. Ecco, se don Lollò voleva, domani, alla punta dell'alba, Zi' Dima Licasi sarebbe venuto lì e, in quattro e quattr'otto, la giara, meglio di prima.Don Lollò diceva di no, a quelle esortazioni: ch'era tutto inutile; che non c'era più rimedio; ma alla fine si lasciò persuadere, e il giorno appresso, all'alba, puntuale, si presentò a Primosole Zi' Dima Licasi con la cesta degli attrezzi dietro le spalle. Era un vecchio sbilenco, dalle giunture storpie e nodose, come un ceppo antico di olivo saraceno. Per cavargli una parola di bocca ci voleva l'uncino. Mutria o tristezza radicate in quel suo corpo deforme; o anche sconfidenza che nessuno potesse capire e apprezzare giustamente il suo merito d'inventore non ancora patentato. Voleva che parlassero i fatti, Zi' Dima Licasi. Doveva poi guardarsi davanti e dietro, perché non gli rubassero il segreto. - Fatemi vedere codesto mastice - gli disse per prima cosa Don Lollò, dopo averlo squadrato a lungo con diffidenza. Zi' Dima negò col capo, pieno di dignità. - All'opera si vede.- Ma verrà bene? Zi' Dima posò a terra la cesta; ne cavò un grosso fazzoletto di cotone rosso, logoro e tutto avvoltolato; prese a svolgerlo pian piano, tra l'attenzione e la curiosità di tutti, e quando alla fine venne fuori un paio d'occhiali col sellino e le stanghette rotte e legate con lo spago, lui sospirò e gli altri risero. Zi' Dima non se ne curò; si pulì le dita prima di pigliare gli occhiali; se li inforcò; poi si mise a esaminare con molta gravità la giara tratta sull'aja. Disse: - Verrà bene.- Col mastice solo però - mise per patto lo Zirafa - non mi fido. Ci voglio anche i punti.- Me ne vado - rispose senz'altro Zi' Dima, rizzandosi e rimettendosi la cesta dietro le spalle.Don Lollò lo acchiappò per un braccio. - Dove? Messere e porco, così trattate? Ma guarda un po' che arie da Carlomagno! Scannato miserabile e pezzo d'asino, ci devo metter olio, io, là dentro, e l'olio trasuda! Un miglio di spaccatura, col mastice solo? Ci voglio i punti. Mastice e punti. Comando io.Zi' Dima chiuse gli occhi, strinse le labbra e scosse il capo. Tutti così! Gli era negato il piacere di fare un lavoro pulito, filato coscienziosamente a regola d'arte, e di dare una prova della virtù del suo mastice. - Se la giara - disse - non suona di nuovo come una campana...- Non sento niente, - lo interruppe Don Lollò. - I punti! Pago mastice e punti. Quanto vi debbo dare?- Se col mastice solo...- Càzzica che testa! - esclamò lo Zirafa. - Come parlo? V'ho detto che ci voglio i punti. C'intenderemo a lavoro finito: non ho tempo da perdere con voi. E se ne andò a badare ai suoi uomini. Zi' Dima si mise all'opera gonfio d'ira e di dispetto. E l'ira e il dispetto gli crebbero ad ogni foro che praticava col trapano nella giara e nel lembo spaccato per farvi passare il fil di ferro della cucitura. Accompagnava il frullo della saettella con grugniti a mano a mano più frequenti e più forti; e il viso gli diventava più verde dalla bile e gli occhi più aguzzi e accesi di stizza. Finita quella prima operazione, scagliò con rabbia il trapano nella cesta; applicò il lembo staccato alla giara per provare se i fori erano a egual distanza e in corrispondenza tra loro, poi con le tenaglie fece del fil di ferro tanti pezzetti quanti erano i punti che doveva dare, e chiamò per aiuto uno dei contadini che abbacchiavano.- Coraggio, Zi' Dima! - gli disse quello, vedendogli la faccia alterata. Zi' Dima alzò la mano a un gesto rabbioso. Aprì la scatola di latta che conteneva il mastice, e lo levò al cielo, scotendolo, come per offrirlo a Dio, visto che gli uomini non volevano riconoscerne le virtù: poi col dito cominciò a spalmarlo tutt'in giro al lembo staccato e lungo la spaccatura; prese le tenaglie e i pezzetti di fil di ferro preparati avanti, e si cacciò dentro la pancia aperta della giara, ordinando al contadino di applicare il lembo alla giara, così come aveva fatto lui poc'anzi. Prima di cominciare a dare i punti: - Tira! - disse dall'interno della giara al contadino. - Tira con tutta la tua forza! Vedi se si stacca più? Malanno a chi non ci crede! Picchia, picchia! Suona, si o no, come una campana anche con me qua dentro? Va', va' a dirlo al tuo padrone!- Chi è sopra comanda, Zi' Dima, - sospirò il contadino - e chi è sotto si danna! Date i punti, date i punti. E Zi' Dima si mise a far passare ogni pezzetto di fil di ferro attraverso i due fori accanto, l'uno di qua e l'altro di là della saldatura; e con le tanaglie ne attorceva i due capi. Ci volle un'ora a passarli tutti. I sudori, giù a fontana, dentro la giara. Lavorando, si lagnava della sua mala sorte. E il contadino, di fuori, a confortarlo.- Ora aiutami a uscirne, - disse alla fine Zi' Dima. Ma quanto larga di pancia, tanto quella giara era stretta di collo. Zi' Dima, nella rabbia, non ci aveva fatto caso. Ora, prova e riprova, non trovava più il modo di uscirne. E il contadino invece di dargli aiuto, eccolo là, si torceva dalle risa. Imprigionato, imprigionato lì, nella giara da lui stesso sanata e che ora - non c'era via di mezzo - per farlo uscire, doveva essere rotta daccapo e per sempre. Alle risa, alle grida, sopravvenne Don Lollò. Zi' Dima, dentro la giara, era come un gatto inferocito. Fatemi uscire! - urlava -. Corpo di Dio, voglio uscire! Subito! Datemi aiuto! Don Lollò rimase dapprima come stordito. Non sapeva crederci. - Ma come? là dentro? s'è cucito là dentro? S'accostò alla giara e gridò al vecchio:- Aiuto? E che aiuto posso darvi io? Vecchiaccio stolido, ma come? non dovevate prender prima le misure? Su, provate: fuori un braccio... così! e la testa... su... no, piano! Che! giù... aspettate! così no! giù, giù... Ma come avete fatto? E la giara, adesso? Calma! Calma! Calma! - si mise a raccomandare tutt'intorno, come se la calma stessero per perderla gli altri e non lui. - Mi fuma la testa! Calma! Questo è caso nuovo... La mula!Picchiò con le nocche delle dita su la giara. Sonava davvero come una campana.- Bella! Rimessa a nuovo... Aspettate! - disse al prigioniero. - Va' a sellarmi la mula! - ordinò al contadino; e, grattandosi con tutte le dita la fronte, seguitò a dire tra sé: «Ma vedete un po' che mi capita! Questa non è giara! quest'è ordigno del diavolo! Fermo! Fermo lì!» E accorse a regger la giara, in cui Zi' Dima, furibondo, si dibatteva come una bestia in trappola.- Caso nuovo, caro mio, che deve risolvere l'avvocato! Io non mi fido. La mula! La mula! Vado e torno, abbiate pazienza! Nell'interesse vostro... Intanto, piano! calma! Io mi guardo i miei. E prima di tutto, per salvare il mio diritto, faccio il mio dovere. Ecco: vi pago il lavoro, vi pago la giornata. Cinque lire. Vi bastano?- Non voglio nulla! - gridò Zi' Dima. - Voglio uscire.- Uscirete. Ma io, intanto, vi pago. Qua, cinque lire. Le cavò dal taschino del panciotto e le buttò nella giara. Poi domandò, premuroso:- Avete fatto colazione? Pane e companatico, subito! Non ne volete? Buttatelo ai cani! A me basta che ve l'abbia dato. Ordinò che gli si désse; montò in sella, e via di galoppo per la città. Chi lo vide, credette che andasse a chiudersi da sé in manicomio, tanto e in così strano modo gesticolava. Per fortuna, non gli toccò di fare anticamera nello studio dell'avvocato; ma gli toccò d'attendere un bel po', prima che questo finisse di ridere, quando gli ebbe esposto il caso. Delle risa si stizzì.- Che c'è da ridere, scusi? A vossignoria non brucia! La giara è mia! Ma quello seguitava a ridere e voleva che gli rinarrasse il caso com'era stato, per farci su altre risate. "Dentro, eh? S'era cucito dentro? E lui, don Lollò che pretendeva? Te... tene... tenerlo là dentro... ah ah ah... ohi ohi ohi... tenerlo là dentro per non perderci la giara?" - Ce la devo perdere? - domandò lo Zirafa con le pugna serrate. - Il danno e lo scorno?- Ma sapete come si chiama questo? - gli disse infine l'avvocato. - Si chiama sequestro di persona!- Sequestro? E chi l'ha sequestrato? - esclamò lo Zirafa. - Si è sequestrato lui da sé! Che colpa ne ho io? L'avvocato allora gli spiegò che erano due casi. Da un canto, lui, Don Lollò, doveva subito liberare il prigioniero per non rispondere di sequestro di persona; dall'altro il conciabrocche doveva rispondere del danno che veniva a cagionare con la sua imperizia o con la sua storditaggine. - Ah! - rifiatò lo Zirafa. Pagandomi la giara!- Piano! - osservò l'avvocato. - Non come se fosse nuova, badiamo!- E perché?- Ma perché era rotta, oh bella!- Rotta? Nossignore. Ora è sana. Meglio che sana, lo dice lui stesso! E se ora torno a romperla, non potrò più farla risanare. Giara perduta, signor avvocato! L'avvocato gli assicurò che se ne sarebbe tenuto conto, facendogliela pagare per quanto valeva nello stato in cui era adesso. - Anzi - gli consigliò - fatela stimare avanti da lui stesso.- Bacio le mani - disse Don Lollò, andando via di corsa. Di ritorno, verso sera, trovò tutti i contadini in festa attorno alla giara abitata. Partecipava alla festa anche il cane di guardia, saltando e abbaiando. Z i' Dima s'era calmato, non solo, ma aveva preso gusto anche lui alla sua bizzarra avventura e ne rideva con la gaiezza mala dei tristi. Lo Zirafa scostò tutti e si sporse a guardare dentro la giara. - Ah! Ci stai bene?- Benone. Al fresco - rispose quello. - Meglio che a casa mia.- Piacere. Intanto ti avverto che questa giara mi costò quattr'onze nuova. Quanto credi che possa costare adesso?- Come me qua dentro? - domandò Zi' Dima. I villani risero.- Silenzio! - gridò lo Zirafa. - Delle due l'una: o il tuo mastice serve a qualche cosa, o non serve a nulla: se non serve a nulla tu sei un imbroglione; se serve a qualche cosa, la giara, così com'è, deve avere il suo prezzo. Che prezzo? Stimala tu. Zi' Dima rimase un pezzo a riflettere, poi disse:- Rispondo. Se lei me l'avesse fatta conciare col mastice solo, com'io volevo, io, prima di tutto, non mi troverei qua dentro, e la giara avrebbe su per giù lo stesso prezzo di prima. Così conciata con questi puntacci, che ho dovuto darle per forza di qua dentro, che prezzo potrà avere? Un terzo di quanto valeva, sì e no. - Un terzo? - domandò lo Zirafa. - Un'onza e trentatré?- Meno sì, più no.- Ebbene, - disse Don Lollò. - Passi la tua parola, e dammi un'onza e trentatré.- Che? - fece Zi' Dima, come se non avesse inteso.- Rompo la giara per farti uscire, - rispose Don Lollò - e tu, dice l'avvocato, me la paghi per quanto l'hai stimata: un'onza e trentatré.- Io pagare? - sghignazzò Zi' Dima. - Vossignoria scherza! Qua dentro ci faccio i vermi. E, tratta di tasca con qualche stento la pipetta intartarita, l'accese e si mise a fumare, cacciando il fumo per il collo della giara. Don Lollò ci restò brutto. Quest'altro caso, che Zi' Dima ora non volesse più uscire dalla giara, nè lui nè l'avvocato l'avevano previsto. E come si risolveva adesso? Fu lì lì per ordinare di nuovo: «La mula», ma pensò che era già sera.- Ah, sì - disse. - Tu vuoi domiciliare nella mia giara? Testimonii tutti qua! Non vuole uscirne lui, per non pagarla; io sono pronto a romperla! Intanto, poiché vuole stare lì, domani io lo cito per alloggio abusivo e perché mi impedisce l'uso della giara. Zi' Dima cacciò prima fuori un'altra boccata di fumo, poi rispose placido:- Nossignore. Non voglio impedirle niente, io. Sto forse qua per piacere? Mi faccia uscire, e me ne vado volentieri. Pagare... neanche per ischerzo, vossignoria! Don Lollò, in un impeto di rabbia, alzò un piede per avventare un calcio alla giara; ma si trattenne; la abbrancò invece con ambo le mani e la scrollò tutta, fremendo. - Vede che mastice? - gli disse Zi' Dima.- Pezzo da galera! - ruggì allora lo Zirafa. - Chi l'ha fatto il male, io o tu? E devo pagarlo io? Muori di fame là dentro! Vediamo chi la vince! E se ne andò, non pensando alle cinque lire che gli aveva buttate la mattina dentro la giara. Con esse, per cominciare, Zi' Dima pensò di far festa quella sera coi contadini che, avendo fatto tardi per quello strano accidente, rimanevano a passare la notte in campagna, all'aperto, su l'aja. Uno andò a far le spese in una taverna lì presso. A farlo apposta, c'era una luna che pareva fosse raggiornato. A una cert'ora don Lollò, andato a dormire, fu svegliato da un baccano d'inferno. S'affacciò a un balcone della cascina, e vide su l'aia, sotto la luna, tanti diavoli; i contadini ubriachi che, presisi per mano, ballavano attorno alla giara. Zi' Dima, là dentro, cantava a squarciagola. Questa volta non poté più reggere, Don Lollò: si precipitò come un toro infuriato e, prima che quelli avessero tempo di pararlo, con uno spintone mandò a rotolare la giara giù per la costa. Rotolando, accompagnata dalle risa degli ubriachi, la giara andò a spaccarsi contro un olivo. E la vinse Zi' Dima. Luigi Pirandello Cecina
Postato da Grazia01 il Lunedì, 20 marzo @ 14:37:40 CET (1157 letture)
![]() - Maestà, il popolo desidera una Regina. E lui rispondeva: - Prenderò moglie l’anno venturo. Passava l’anno, e i ministri da capo: - Maestà, il popolo desidera una Regina. E lui: - Prenderò moglie l’anno venturo. Ma quest’anno non arrivava mai. Ogni mattina, appena albeggiava, indossava la carniera, e col fucile in spalla, e coi cani, via pei forteti e pei boschi. Chi avea da parlare col Re, doveva andare a trovarlo in mezzo ai boschi e ai forteti. I ministri ripicchiavano: - Maestà, il popolo desidera una Regina. Talchè finalmente il Re si decise, e mandò a chiamare la figlia del Re di Spagna. Ma, andato per sposarla, si accorse che era un po’ gobbina. - Sposare una gobbina? No. Mai. - E’ gobbina e basta: no, mai! E tornò alla caccia, ai boschi e ai forteti. Quella Reginotta gobbina aveva per comare una Fata. La Fata, vedendola piangere pel rifiuto del Re, le disse: - Sta tranquilla: ti sposerà e dovrà venire a pregarti. Lascia fare a me. Infatti un giorno il Re, andando a caccia, incontrò una donnicciola magra, allampanata, che un soffio l’avrebbe portata via. - Maestà, buona caccia! Il Re, a quel viso di mal augurio, stizzito, fece una mossaccia, e non rispose nulla. E per quel giorno non ammazzò neppure uno scricciolo. Un’altra mattina, ecco di nuovo quella donnicciola magra, allampanata, che un soffio l’avrebbe portata via. - Maestà, buona caccia! - Senti strega – le disse il Re – se ti trovo un’altra volta per la strada, te la farò vedere io! E per quel giorno non ammazzò neppure uno scricciolo. Ma la mattina dopo, eccoti li quella del malaugurio. - Maestà, buona caccia! - La buona caccia te la darò io! Il Re avea condotto con se le sue guardie, e ordinò che quella donna del malaugurio fosse chiusa in una prigione. Da quel giorno in poi, tutte le volte che il Re andò a caccia non potè tirare un sol colpo. La selvaggina era sparita, come per incanto, dai forteti e dai boschi. Non si trovava un coniglio o una lepre, neppure a pagarli a peso d’oro. Gli accadde anche di peggio. Non potendo più fare il solito esercizio della caccia, il Re cominciò a ingrassare, a ingrassare, e in poco tempo diventò così grasso e grosso, da pesare due quintali con quel gran pancione che pareva una botte. Quando avea fatto due passi per le stanze del palazzo reale, era come se fatto cento miglia. Soffiava peggio di un mantice, sudava da allagare il pavimento; e doveva subito riposarsi e mangiare anche qualche cosa di sostanza, per rimettersi in forze. Desolato, consultava i migliori dottori: - Vorrei dimagrire. I dottori scrivevano ricette sopra ricette. Non passava giorno che lo speziale non andasse a palazzo bicchieroni d’intrugli amari come il fiele, che dovevano guarire Sua Maestà. Ma Sua Maestà, più intrugli prendeva e più grasso diventava. Nel palazzo reale avevano già allargato tutti gli usci delle stanze, perché il Re potesse passar; e una volta gli architetti dissero che se non si fossero puntellati ben bene i solai, Sua Maestà col gran peso gli avrebbe sfondati. Il povero Re si disperava: - O che non c’era rimedio per lui? E chiamava altri dottori; ma inutilmente. Più intrugli prendeva e più grasso diventava. Un giorno si presentò una vecchia e disse al Re: - Maestà. Voi avete addosso una brutta malia. Io potrei romperla; ma voi, in compenso, dovete sposare la mia figliola, che si chiama Cecina, perché è piccina come un cece. - Sposerò la tua Cecina! Il Re avrebbe fatto chi sa che cosa, pur di levarsi di dosso tutto quel grasso e quel pancione. - Conducila qui. La vecchia cacciò una mano nella tasca del grembiule, e ne tirò fuori Cecina, che era alta appena una spanna, ma bellissima e ben proporzionata. Come vide quel pancione, la Cecina scoppiò in una risata; e mentre quella la teneva sul palmo della mano per mostrarla al Re, lei spiccò un salto e si mise ad arrampicarsi su quel pancione, correndo di qua e di la, come se il pancione del Re fosse stato per lei una collina. Il Re, con quei piedini, sentiva farsi il solletico e voleva fermarla; ma quella, salta di qua, salta di la, peggio di una pulce, non si lasciava acchiappare. Pel solletico, il Re rideva, ah! Ah! Ah! Ah!, e il pancione gli faceva certi sbalzi buffi! Ah! Ah! Ah! Allora la Cecina: - Pancione del Re, palazzo per me! Il Re dal gran ridere, teneva aperta la bocca; la Cecina, dentro e giù per la gola: - Pancione del Re, palazzo per me! Figuriamoci lo spavento di Sua Maestà e di tutta la corte! Nella confusione, la vecchia era sparita. E la Cecina, che dal suo palazzo ordinava: - Datemi da mangiare! E il Re doveva mangiare anche per lei. - Datemi da bere! E il Re doveva bere anche per lei. - Lasciatemi dormire! E il Re dovea stare fermo e zitto, perché Cecina dormisse. - Maestà, - disse uno dei ministri – che ci sia una malia di quella donna magra, allampanata, fatta mettere in prigione? Facciamola condurre qui. I guardiani aprirono la prigione e la trovarono vuota. Quella donna dovea essere scappata pel buco della serratura! - Ed ora che fare? E la Cecina, dal suo palazzo del pancione: - Datemi da mangiare! Datemi da bere! Il popolo intanto mormorava per le tasse; giacché per riempire quel pancione del Re, ce ne voleva della roba! E bisognava pagare. Il Re fece un bando: - Chi gli cavava la Cecina dallo stomaco, diventava principe reale e avrebbe avuto quattrini quanti ne voleva! Ma i banditori andarono attorno inutilmente. E come la Cecina cresceva, per quando poco crescesse, il pancione del Re si gonfiava e pareva dovesse scoppiare da un momento all’altro. Il Re la pregava: - Cecina bella, vieni fuori, ti faccio Regina! - Maestà, sto bene qui dentro. Datemi da mangiare. - Cecina bella, vieni fuori, ti faccio Regina! - Maestà, sto bene qui dentro. Datemi da bere. Se non fosse stato per timore della morte, il Re si sarebbe spaccato il pancione colle proprie mani. E il popolo che brontolava: - Re pancione ingoiava tutto! Lavoravano per Re pancione! Come se Re pancione ci avesse avuto il suo piacere! Lo sapeva soltanto lui, quello che pativa, con Cecina dentro che comandava a bacchetta e voleva essere ubbidita! Finalmente un giorno ricomparve la vecchia: - Ah, vecchia scellerata! Cavami fuori la tua Cecina, o guai a te! - Maestà, - disse la vecchia – dovete stendervi a pancia all’aria in mezzo a una pianura. Il Re, che era ingrassato da non poter più fare neppure un passo, comandò: - Ruzzolatemi. E il popolo cominciò a ruzzolarlo come una botte, per le scale e per le vie; e, dalla fatica, sudavano. Arrivati nella pianura, e messo il Re a pancia all’aria, uno degli uccellacci gli diè una beccata sul pancione e, che ne schizzò fuori? Uno zampillo di vino schietto, tutto il vino che Sua Maestà aveva bevuto in tanti anni. La gente riempiva botti, botticini, caratelli, tini, barili, fiaschi, boccali; non c’erano vasi che bastassero. Pareva di essere alla vendemmia. Tutti cioncavano e si ubriacavano. E il pancione del Re si sgonfiò un poco. Allora l’altro uccellaccio gli diè la sua beccata, ed ecco rigugitar fuori tutto il ben di Dio mangiato da Re in tanti anni; maccheroni, salsicciotti, polli arrosto, bistecche, pasticcini, frutta, insomma ogni cosa. La gente non sapeva più dove riporli. Tutti mangiarono a crepapancia, come si fosse di carnivale. E il pancione del Re sgonfiò un altro poco. Allora il Re disse: - Cecina bella, vien fuori; ti faccio Regina! La Cecina affacciò la testa da uno dei buchi, e ridendo rispose: - Eccomi qua. E il Re tornò com’era prima. Sii sposarono; ma il Re con quella cosina alta una spanna, che era una moglie per chiasso, si credette libero di tornare a divertirsi colla caccia, e stava fuori intere settimane. La Cecina piangeva: - Ah, poverina me! Son Regina senza Re! Il Re per quel lamentio, non la poteva soffrire. Andò da una strega e le disse: - Che cosa debbo fare per levarmi di torno Cecina? - Maestà, “Spellarla, lessarla, o arrosto mangiarla!”. Mangiarla gli ripugnava; pure, tornando a casa disse alla Cecina: - Domani ti condurrò a caccia, e ti divertirai. Voleva condurla in mezzo ai boschi, dove non potesse vederlo nessuno. Ma Cecina rispose: - Spellarla, lessarla, o arrosto mangiarla. Grazie Maestà! Ah, poverina me! Son Regina senza Re! Il Re rimase Stupito: - Come lo sapeva? Tornò dalla strega e le raccontò la cosa. - Maestà, quando la Cecina sarà addormentata, tagliatele una ciocca di capelli e portatemela qui. Però, quella sera, la Cecina non avea voglia di andare a letto. - Cecina, vieni a dormire. - Più tardi, Maestà; per ora non ho sonno. Il Re aspettò, aspettò, e si addormentò lui per primo. La mattina, svegliandosi, vide che la Cecina era già levata. - Cecina, non hai dormito? - Chi si guarda si salva. Grazie, Maestà. Il re rimase stupito: - Come lo sapeva? Tornò dalla strega e le raccontò la cosa. - Maestà, invitate re Corvo; appena la vedrà, ne farà un sol boccone. Venne re Corvo: - Cra! Cra! Cra! Cra! E come vide la Cecina, alta una spanna, cra! Cra! Ne fece un sol boccone. - Mille grazie, re Corvo. Ora potete andar via. - Cra! Cra! Cra! Ma prima di andar via, debbo mangiarti gli occhi. E con due beccate gli cavò gli occhi. Il povero Re piangeva sangue: - La Cecina morta, e lui senz’occhi! Ah, Cecina mia! Passato un po’ di tempo, ricomparve la solita vecchia. Era la Fata comare della Reginotta di Spagna. - Maestà, non vi affliggete. La Cecina è viva, e i vostri occhi son riposti in un buon luogo; son nella gobba della Reginotta di Spagna. Il Re si trascinò fino al palazzo reale, dove questa abitava, e cominciò a gridare pietosamente, dietro il portone: - Ah, Reginotta! Rendetemi gli occhi. La Reginotta, dalla finestra rispondeva: - Sposare una gobbina! No, mai! - Perdonatemi, Reginotta; rendetemi gli occhi! La Reginotta dalla finestra rispondeva: - Spellarla, lessarla, o arrosto mangiarla. Allora il Re capì che la Reginotta di Spagna e la Cecina erano una sola persona; e si mise a gridare più forte: - Ah, Reginotta! Ah, Cecina mia! Rendetemi gli occhi. La Reginotta scese giù e gli disse: - Ecco gli occhi. Il Re la guardò sbalordito. La Reginotta non era più gobba e somigliava precisamente alla Cecina, benché fosse di giusta statura. Così fu perdonato, e da li a poco la sposò. Lei, per ricordo, volle sempre essere chiamata Cecina. Vissero lieti e contenti. E a noi si allegano i denti. /www.johnefrem.com La sposa del Gelo
Postato da Grazia01 il Lunedì, 20 marzo @ 14:02:35 CET (1517 letture)
![]() C’era una volta in Russia un contadino il quale rimase vedovo con una figlia chiamata Marfuscka. Dopo qualche tempo si risposò con una vedova, che aveva anche una figlia. Il contadino aveva sperato che la nuova moglie sarebbe stata una seconda mamma amorevole e tenera anche per la bimba non sua, come lei gli aveva promesso e fatto credere prima delle nozze, mostrandosi amorosa e dolce verso la bimba. Ma, una volta, sposata, la sua vera indole si rilevò. Era malvagia e crudele, e si mise a tormentare la povera Marfuscka senza pietà. La sgridava dalla mattina alla sera e la costringeva a sbrigare tutte le faccende più pesanti. Marfuscka doveva alzarsi prima dell’alba, andare ad attingere l’acqua alla fontana e a raccogliere legna nel bosco, poi doveva accendere la stufa, spazzare e spolverare la casa, lavare i pavimenti, dar da mangiare agli animali. La fanciulla era dolce ed ubbidiente, e cercava d’accontentare la matrigna come meglio poteva, ma questa non faceva che brontolare, sgridandola e maltrattandola di continuo. Ma con il passare degli anni, l’odio della matrigna per la figliastra non faceva che aumentare perché, nonostante le fatiche e la stanchezza, Marfuscka diventava ogni giorno più fresca e più bella. Aveva il volto roseo, illuminato da grandi occhi azzurri, lunghi capelli biondi, la personcina aggraziata. Mentre sua figlia non faceva che imbruttire, e per di più era anche sgarbata, capricciosa, presuntuosa, il che allontanava tutti. Il contadino soffriva molto nel vedere che la sua amata Marfuscka era così maltrattata, ma la seconda moglie che era una maga, lo teneva sotto il suo dominio e lo privava d’ogni volontà. Così egli si era abituato a cedere sempre, senza protestare mai, senza mai ribellarsi e infine era diventato un povero scemo, incapace di agire e di reagire. Quando Marfuscka ebbe diciotto anni, la matrigna pensò che era ora di sbarazzarsi di lei in modo definitivo. Andò dal marito e gli disse: - Marfuscka è in età da marito. Ho trovato uno sposo per lei. Domattina alzati di buon’ora, attacca il cavallo alla slitta, poi ti dirò dove devi condurla. Volgendosi a Marfuscka le disse: - Riponi la tua roba in quel baule di legno, indossa il tuo vestito della domenica e bada di trovarti pronta prima dell’alba, andrai con tuo padre dallo sposo che ho scelto per te. All’alba padre e figlia erano pronti e salirono sulla slitta. La matrigna disse al marito: - Va nel bosco e fermati sotto il grande abete che sta sulla collina. È lì che devi lasciare sola Marfuscka, il suo sposo non tarderà a venirla a prendere: è il Mago del Gelo, un ottimo partito. È ricchissimo e possiede argento, perle e diamanti in gran quantità. Il contadino a quelle parole rimase a bocca aperta per la meraviglia e sul suo volto l’espressione fissa, quasi da idiota, si dipinse il terrore. Anche Marfuscka si spaventò e si mise a tremare tutta. Ma nessuno dei due osò ribellarsi, il contadino fece schioccare la frusta, il cavallo si mise al trotto e la slitta scomparve nel bosco. Si era in pieno inverno e il Mago Gelo aveva elargito i suoi tesori a piene mani sulla foresta silenziosa, addormentata nel lungo sonno della rigida stagione, i pini, gli abeti, i cespugli erano ammantati d’argento bianco della neve, e dai loro rami pendevano ghiaccioli di diamante e gocce di perle, che i raggi del sole splendevano. Giunti nel cuore del bosco, padre e figlia trovarono la collina con il grande abete, anch’esso tutto rivestito d’argento, il contadino fermò la slitta e Marfuscka scese a terra. Suo padre tolse dalla slitta il baule e lo poggiò a terra, ai piedi del grande abete, poi disse alla figlia: - Siediti lì sul baule e aspetta il tuo fidanzato, accoglilo gentilmente. Poi abbracciò la figlia e la lasciò sola. Marfuscka si sedette sul baule e rimase nell’attesa, tremava per il freddo e di sgomento, e aveva una gran voglia di piangere. Ma si faceva forza e tentava d’atteggiare il dolce volto con un sorriso. Ad un tratto udì uno scricchiolio di passi sulla neve ghiacciata e un rumore secco di rami schiantati, e dal folto apparve il Mago Gelo, che le s’accostò, saltando e ballando, le disse: - Sono il Mago del Gelo, dalla barba bianca! Sono il Mago del Gelo, dal rosso naso! Sono il Mago del Gelo, che ti viene a prendere! - Che tu sia il benvenuto! – esclamò la ragazza. – E’ il cielo che ti manda da me! - Come ti senti? – le domandò il Mago del Gelo– hai caldo così, bella mia? - Sì, sì, nonnino, ho caldo e sto bene– rispose la ragazza con il respiro mozzo per il vento freddo. - Sei contenta d’essere la mia fidanzata? Chiese ancora il Mago del Gelo. - Sì, sì, sono contenta ! Affermò Marfuscka tremando di freddo e battendo i denti, ma sempre sorridendo. In verità il Mago del Gelo, secondo la sua abitudine, voleva ghiacciarla, e per la povera Marfuscka sarebbe stata la fine per sempre, come desiderava la malvagia matrigna. Ma ascoltandola parlare con tanta dolcezza, e vedendo il suo volto così mite e soave, il vegliardo signore dell’inverno ebbe pietà di lei. Le regalò una magnifica pelliccia d’ermellino, la avvolse dentro una coperta morbida e calda, le mise vicino un gran cofano colmo d’argento, di perle, di diamanti, di vesti preziose e di gioielli meravigliosi, e la confortò con amabili parole. La ragazza, felice, si mise a danzare sulla neve una danza di gioia e gli cantò le più liete canzoni. Al mattino seguente, la matrigna disse al marito: - Attacca il cavallo alla slitta e va nel bosco a trovare gli sposi. Era sicura cha Marfuscka nella notte fosse morta assiderata, e si sentiva così allegra e soddisfatta nel suo perfido cuore. Iniziò i preparativi per il banchetto funebre, ed ecco che mentre faceva cuocere le frittelle, senti il cane di casa che abbaiava e parlava: - Bau, bau, bau! La mia padroncina ritorna, e piena di perle e di diamanti è adorna! Indossa una veste d’argento! Bau, bau! Come sono felice! Bau, bau, bau! La malvagia matrigna andò su tutte le furie e lanciò un pezzo di legno contro il cane, urlandogli: - Ma che racconti mai? Vuoi affermare che il padrone ora condurrà qui Marfuscka morta assiderata! Ma il cane ripetè, le stesse frasi: - Bau, bau, bau! La mia padroncina ritorna, piena di perle e di diamanti è adorna! Indossa una veste d’argento! Bau, bau! Come sono felice! Bau, bau, bau! Intanto il contadino era andato nel bosco con la slitta, giunto alla colina, vide Marfuscka seduta sotto il grande abete, bene coperta nella pelliccia d’ermellino e avvolta nella calda coperta morbida con accanto al prezioso cofano, dono del Mago del Gelo. Era molto felice, la fece salire sulla slitta e la riportò a casa. La matrigna e la sorella come la videro andarono su tutte le furie e per poco non morirono di collera. La matrigna ordinò al marito di preparare di nuovo la slitta per il mattino successivo, e disse a sua figlia di prepararsi anche lei prima dell’alba e d’indossare la sua veste più ricca, perché avrebbe dovuto recarsi dal promesso sposo. Quando fu tutto pronto, la donna disse al marito: - Condurrò io la slitta, tu resta a casa con Marfuscka. Salì sulla slitta insieme alla figlia, frustò il cavallo e scomparve nel bosco. Giunta sulla colina, la donna tirò le redini e fermò il cavallo. Poi disse alla figlia: - Scendi e mettiti là sotto l’abete, seduta sul baule della tua roba, come ha fatto Marfuscka. Io m’apposterò dietro il cespuglio e starò un po’ a vedere come si mettono le cose per te con il vecchio Mago del Gelo. La ragazza obbedì contro voglia, brontolò e protestò che faceva troppo freddo, per starsene seduti lì nel bosco. Ma la madre le disse d’aver pazienza, che il Mago del Gelo non avrebbe tardato ad arrivare. Infatti, poco dopo s’udirono uno scricchiolio di passi sulla neve ghiacciata e un rumore secco di rami spezzati, e dal folto del bosco apparve il Mago del gelo. Vedendo quella poco simpatica fanciulla, dal viso senza bontà e senza freschezza e con un’espressione di stizza e di malumore, egli rimase male, e soffiandole in viso il suo alito gelato, le disse: - Sono il Mago del Gelo, con la barba bianca! Sono il Mago del Gelo dal rosso naso! Sono il Mago del Gelo, che ti viene a prendere! - Non ci vuol molto a capirlo! Esclamò la fanciulla con stizza. Quando parli, si sente un vento ghiacciato! Stammi lontano per carità! - Come, non stai bene così, bella mia? Le domandò il Mago del Gelo in tono beffardo, soffiando ancora più forte. Non hai caldo abbastanza? - Ma se ti ho detto di star lontano da me, che mi geli! Urlò la fanciulla. - Come? Lontano da te? Non mi vuoi dunque come sposo? - Per carità! Va via! Lasciami! Gridò la fanciulla sentendosi travolta in un turbine di vento e di neve. Vedendo il pericolo che correva sua figlia, la donna uscì dal suo nascondiglio e s’avvicinò, per proteggerla dalla terribile tormenta che si era levata. Il Mago del Gelo, furibondo, si era messo a soffiare con tutte le sue forze, alzando mulinelli di neve e di vento, che ghiacciava il corpo e accecava gli occhi. Spaventate, madre e figlia si misero a correre, tenendosi per mano e tentando di salvarsi dalla gelida bufera. Non si sa se vi siano riuscite. Da quel giorno nessuno le ha mai più vedute e nessuno le ha rimpiante! Quando a Marfuscka e a suo padre, essi vissero felici nella pace e nell’agiatezza, grazie agli splendidi doni del Mago del Gelo, e non ebbero più modo d soffrire. E al buon cane nessuno lanciò più contro pezzi di legno, ma la sua padrona gli dava carezze e buoni bocconcini, e lui abbaiava felice: - Viva Marfuscka in veste d’argento! Bau, bau, bau, come sono felice. /www.johnefrem.com L'oro dell'avaro
Postato da Grazia01 il Lunedì, 20 marzo @ 13:45:48 CET (1272 letture)
![]() C’era una volta un avaro, che in tutta la sua vita non aveva avuto altro pensiero che ammassare ricchezze ed altra sua angoscia era di nasconderlo agli occhi di tutti. L’oro ammassato era diventato per lui una vera fissazione, di continuo egli scendeva nel sotterraneo dove teneva il suo forziere, per assicurarsi che nessuno glielo avesse rubato. Restava ore ed ore a guardarlo, come stregato dal bagliore delle monete d’oro, e continuava a pensare: “ Sono mie, sono mie! Come sono belle! A patto che nessuno sappia che le ho, a condizione che nessuno le veda, perché nessuno me le porti via! “. Gli anni passavano e l’avaro divenne vecchio ma molto vecchio. Il suo corpo malandato era oramai tutto arido e grintoso, il suo volto, che faceva pensare alla testa di un uccello da rapina, era come rinsecchito, e l’espressione d’avidità e l’avidità lo aveva reso sempre più apro, ostile e inamabile. A poco a poco i malesseri della vecchiaia cominciarono ad indebolirlo, le sue forze diminuivano giorno per giorno e ormai era soltanto con immensa fatica riusciva a scendere nel sotterraneo per ammirare il suo forziere colmo d’oro. Una mattina si risvegliò e sentì che la sua ora era oramai prossima, si avvolse in una vecchia vestaglia logora e consumata, e con passo vacillante, barcollando, si trascinò un’ultima volta al suo tesoro. Ed un pensiero folle, irragionevole, sconsiderato s’impadronì di lui: “ Non voglio separarmi dal mio oro, esso deve venire con me anche nella tomba … ma come posso fare? … Ebbene, lo inghiottirò … “, si disse l’avaro: - Tanto, devo morire … così almeno nessuno me lo porterà via …. E si mise a mandar giù le monete d’oro, una dopo l’altra. Dopo averle ingoiate tutte, si sentì oppresso da un peso terribile e capì che la sua ultima ora era giunta. Risalì a stento le scale e si coricò sul letto. Poi fece chiamare un prete, e mentre questi gli leggeva le preghiere dei defunti, l’avaro entrò in agonia. Morì a mezzanotte. Istantaneamente s’udì’ un terribile frastuono come dei macigni che cadevano dai muri, apparve il diavolo in persona. Senza tanti complimenti afferrò l’avaro per i piedi e si mise a scrollarlo, le monete d’oro che il vecchio aveva inghiottito mandavano un tintinnio dentro la pancia. - Ah! Ah! – disse il diavolo molto appagato e con un feroce riso beffardo di schermo, urlò: - Questo sacco d’oro me lo prendo io! Detto fatto, il demonio si caricò l’avaro sulla schiena, e battendo per terra il piede forcuto, sprofondò negli abissi. Il vecchio avaro aveva fatto male i calcoli: dopo la morte nessuno può portare con sé nell’aldilà i beni terreni cui si è troppo attaccati in vita, e che invece valgono così poco. E chi tenta di farlo, non riesce perché se lo prende il diavolo. /www.johnefrem.com L'anello della fortuna
Postato da Grazia01 il Lunedì, 20 marzo @ 13:40:27 CET (1863 letture)
![]() C’era una volta un montanaro attivo, onesto e lavoratore, che viveva in pace in una casetta insieme con sua moglie e coi suoi figliuoli. Un giorno, mentre stava arando il suo campicello, si fermò un momento per riprendere fiato e per asciugarsi il sudore della fronte. E ad un tratto udì una strana voce, che sembrava venire dall’al di là, e che diceva:- Va’ nel bosco, brav’uomo, e troverai la fortuna! Il contadino si guardò intorno: nessuno! Chi mai poteva aver parlato? Qualche spirito benefico, forse? “Sarà meglio che io segua il consiglio, a ogni buon conto”, pensò l’uomo: e si diresse verso il bosco che si stendeva in cima alla montagna. Vi giunse dopo un lungo cammino, e mentre si inoltrava nel folto, vide un uovo che cadeva giù da un nido posto sopra un vecchio abete. Il guscio picchiando sul terreno si spaccò, e dall’uovo venne fuori un’ aquila, che si levò a volo nell’aria, dirigendosi verso Occidente. E mentre si allontanava lasciò cadere al suolo un anello d’oro, dicendo con voce umana: - Questo è l’anello della fortuna: colui che se lo mette in dito e lo gira, può esprimere un desiderio, e quel desiderio sarà esaudito. Questo però avverrà una sola volta e non di più! Il montanaro corse presso l’anello magico, lo raccattò e se lo mise al dito. Intanto si era fatto tardi e cominciava ad annottare. “Sarà meglio che io non torni a casa, stasera, si disse il montanaro: chiederò ospitalità al mio vecchio amico che abita in una casetta, là in quella radura del bosco…”. Così fece e l’amico fu ben lieto di ospitarlo. I due cenarono insieme, e il montanaro raccontò all’amico la straordinaria avventura che gli era capitata quel giorno. Fu una grave imprudenza, perché l’amico fu preso dal desiderio malvagio di impossessarsi dell’anello. Nella notte, mentre il montanaro, stanco, dormiva pesantemente, egli si accostò a lui con passo furtivo e riuscì a togliere dal dito l’anello magico senza che quello se ne avvedesse, e gliene infilò un altro simile. Quindi il rapitore si chiuse in una stanza a doppio giro di chiave, si pose in dito l’anello e rigirandolo formulò un voto:- Desidero un milione di rubli! Non aveva ancora finito di pensare quelle parole che gli piovve addosso dall’alto una fitta gragnola di monete d’oro. I rubli si ammucchiavano tintinnando attorno a lui e non smettevano di cadere: e poco dopo per il peso eccessivo l’impiantino di legno cedette e sprofondò, e i muri della stanza crollarono, seppellendo il ladro sotto le assi sfasciate e sotto le macerie. Il montanaro, destatosi al fragore terribile, accorse e trovò l’uomo morto fra le rovine. “Che terribile disgrazia!” si disse. “E pensare che un’ora fa chiacchierava tranquillamente con me…”. L’oro era scomparso, e così il montanaro non poteva neppur lontanamente supporre la verità. Compose la salma e scese al villaggio a dar la notizia della sciagura. Poi tornò a casa, e raccontò alla moglie tutti gli avvenimenti tristi e lieti del giorno precedente e della notte: e senza sospetto le mostrò il cerchietto d’oro che aveva al dito, dicendole: - Ecco l’anello della fortuna. La donna ascoltò con grande interesse il racconto del marito, e rimase silenziosa e pensierosa. - Ascolta, moglie mia, - le disse egli: - l’aquila mi ha spiegato come il desiderio che l’anello può esaudire è uno solo: sarà meglio che aspettiamo per riflettere bene a quello che ci conviene desiderare… Non ti sembra? - Certamente, bisogna pensarci con calma, - rispose la brava donna, altrimenti potremmo avercene a pentire, poi… si stabilì così fra i due coniugi una tacita intesa: non esprimere per ora alcun desiderio e aspettare il momento più opportuno per formulare l’unico voto concesso. Essi continuarono la loro solita vita attiva e modesta, e il montanaro si tenne al dito l’anello senza più farne parola con alcuno. Lo considerava come un talismano e pensava: “Se un giorno avessi bisogno, l’anello della fortuna mi assisterebbe…”. Non ne aveva parlato nemmeno coi figliuoli, perché sua moglie e lui temevano che si esaltassero. Gli anni seguivano gli anni, e il lavoro assiduo aveva procurato alla famigliola una certa agiatezza. I figliuoli crebbero felicemente e si sposarono, e la casa dei vecchi era spesso rallegrata dal sorriso fresco dei nipotini. I due coniugi non sapevano che cosa avrebbero potuto desiderare di più, e infatti non si decidevano mai a formulare il famoso unico desiderio che l’anello avrebbe potuto esaudire. Si sorridevano spesso, guardandolo, e tentennando il capo mormoravano: “Non ancora, non ancora…”. La vecchiaia trascorse tranquilla, e a poco a poco marito e moglie si avviarono senza accorgersene verso la tomba. Spirarono nello stesso giorno, senza soffrire, perché erano giunti a quella estrema età in cui la vita si spegne dolcemente, come la tremula fiammella di una candela consumata. I figliuoli non tolsero al vecchio padre il cerchietto d’oro che gli avevano sempre visto al dito; e in verità esso era stato più prezioso e più magico dell’anello della fortuna. /www.johnefrem.com Il tempo
Postato da Grazia01 il Venerdì, 17 marzo @ 21:21:32 CET (1811 letture)
![]() ![]() C'era una volta ma non c'è più Quel tocco di magia che fa brillare gli occhi E risveglia un sorriso, Una parola dolce che riscalda il cuore E sveglia la speranza Sul teso e stanco viso. C'era.....ma perché non c'è più? Perché servono gli occhi tristi Svuotati anche dalle lacrime, Lacrime pesanti e amare Piene di solitudine che fanno triste Tutte le anime. Oh tu, il tempo crudele Perché non ti fermi almeno per un attimo Se non puoi tornare indietro E fai che tutto brilla come una volta E diventa trasparente Come il vetro. Le domande senza risposta Le speranze senza futuro Perché sei così duro? Fermati ti prego Aiutami a rompere Quell'invisibile muro. Spalato Ciao
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