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coppermine
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Achmatova
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Crostata di mele
Postato da Grazia01 il Mercoledì, 08 marzo @ 22:17:53 CET (1830 letture)
![]() 2 mele grosse tagliate a fette e ricoperte di limone spremuto 250 gr. di farina ½ bustina di lievito 1 uovo intero + 1 rosso 1 cucchiaio di latte 3 cucchiai di zucchero 1 etto di burro 1 pizzico di sale buccia di limone grattugiata o 1 cucchiaio di limoncello Esecuzione: Accendere il forno a 180° Setacciare la farina su di una spianatoia, fare il solco centrale e mettere le uova, sbattere leggermente, aggiungere lo zucchero, il burro a pezzettini (non di frigo), mescolare velocemente incorporando un po’ di farina, unire il tutto e impastare velocemente aggiungendo un po’ di latte se necessario. Fare una palla. Mettere nel centro di una teglia precedentemente imburrata e infarinata e con le mani appiattire partendo dal centro verso i bordi fino a coprire il fondo della teglia, più un piccolo bordo di circa ½ centimetro, appoggiare artisticamente le mele. Mettere nel forno a 180° e cuocere dai 30 ai 45 minuti, posizionando al centro del forno. Quando è cotta estrarre dal forno e a piacere aggiungere qualche cucchiaino di miele versato a filo e spianato con il dorso del cucchiaino. Limoncello
Postato da Grazia01 il Mercoledì, 08 marzo @ 22:14:14 CET (2825 letture)
![]() 1 Kg. di limoni biologici un po’ verdi 1 litro d’alcool 1 Kg. di zucchero In un barattolo di vetro grande quanto basta mettere l’alcool e le scorze dei limoni, prestando attenzione a non prendere anche il bianco, chiudere bene e lasciare per 20 giorni in un luogo buio e asciutto. Passato tale periodo preparare uno sciroppo con litri 1,7 d’acqua e il kg. di zucchero (o meno se lo preferite meno dolce). Deve stare sul fuoco qualche minuto fino a quando lo zucchero si è sciolto e l’acqua è ritornata limpida, non deve bollire. Lasciare raffreddare lo sciroppo, unire l’alcool diventato giallo e imbottigliare. Mettere nel congelatore la bottiglia in uso e bere ghiacciato. Cointreau o liquore dell'impiccato
Postato da Grazia01 il Mercoledì, 08 marzo @ 22:10:55 CET (1455 letture)
![]() 500 gr d'alcool 400 d'acqua 400 di zucchero 1 arancia bio In un boccale dove per l'apertura possa entrare una bella arancia "bio", versare 500 d'alcool, con un grosso ago infilare dello spago nell'arancia, perforare il frutto da una parte all'altra, badando che lo spago sia abbastanza lungo per poter appendere nel boccale l'arancia che non deve toccare il liquido. Chiudere il barattolo ermeticamente e lasciare al buio per 8 giorni. Passato tale periodo aggiungere lo sciroppo fatto con l'acqua e lo zucchero. Filtrare per avere il liquore più limpido, deliziarsi, bevendo con moderazione! E' molto forte! Chi sono?
Postato da Grazia01 il Mercoledì, 08 marzo @ 21:40:59 CET (6131 letture)
![]() No, certo. Non scrive che una parola, ben strana, la penna dell’anima mia: follia Son dunque un pittore? Neanche. Non ha che un colore la tavolozza dell’anima mia: malinconia Un musico, allora? Nemmeno. Non c’è che una nota nella tastiera dell’anima mia: nostalgia Son dunque... che cosa? Io metto una lente davanti al mio cuore per farlo vedere alla gente. Chi sono? Il saltimbanco dell’anima mia. Aldo Palazzeschi Lasciatemi divertire
Postato da Grazia01 il Mercoledì, 08 marzo @ 21:34:58 CET (4320 letture)
![]() I futuristi suscitano molto scalpore nel mondo letterario per il loro anticonformismo, per la decisione con cui rigettavano il passato e per l'entusiasmo con cui inneggiavano al futuro. Aldo Palazzeschi, in questa poesia, si diverte a sovvertire le regole poetiche tradizionali, sostituendo alle parole suoni inventati e privi di senso e ironizzando sulla funzione della poesia e su se stesso. Tri tri tri, fru fru fru, uhi uhi uhi, ihu ihu ihu. Il poeta si diverte, pazzamente, smisuratamente. Non lo state a insolentire, lasciatelo divertire poveretto, queste piccole corbellerie sono il suo diletto. Cucù rurù, rurù cucù, cuccuccurucù! Cosa sono queste indecenze? Queste strofe bisbetiche? licenze, licenze, licenze poetiche. Sono la mia passione. Farafarafarafa, Tarataratarata, Paraparaparapa, Laralaralarala! Sapete cosa sono? Sono robe avanzate, non sono grullerie, sono la... spazzatura delle altre poesie. Bubububu fufufufu Friù! Friù! Se d'un qualunque nesso son prive, perchè le scrive quel fesso? Bilobilobilobilobilo blum! Filofilofilofilofilo flum! Bilolù. Filolù. U. Non è vero che non vogliono dire, vogliono dire qualcosa. Voglion dire... come quando uno si mette a cantare senza saper le parole. Una cosa molto volgare. Ebbene, così mi piace di fare. Aaaaa! Eeeee! Iiiii! Ooooo! Uuuuu! A! E! I! O! U! Ma giovinotto, diteci un poco una cosa, non è la vostra una posa, di voler con così poco tenere alimentato un sì gran foco? Huisc... Huiusc... Huisciu... sciu sciu, Sciukoku... Koku koku, Sciu ko ku Come si deve fare a capire? Avete delle belle pretese, sembra ormai che scriviate in giapponese. Abì, alì, alarì. Riririri Ri. Lasciate pure che si sbizzarisca, anzi, è bene che non lo finisca, il divertimento gli costerà caro: gli daranno del somaro. Labalav falala falala... eppoi lala... e lalala, lalalalala lalala. Certo è un azzardo un po'forte scrivere delle cose così, che ci son professori, oggidì, a tutte le porte. Ahahahahahahah! Ahahahahahahah! Ahahahahahahah! Infine, io ho pienamente ragione, i tempi sono cambiati, gli uomini non domandano più nulla dai poeti: e lasciatemi divertire! Aldo Palazzeschi Aldo Palazzeschi
Postato da Grazia01 il Mercoledì, 08 marzo @ 21:32:01 CET (1967 letture)
![]() Scrittore dal temperamento focoso e ribelle, diventa ben presto un provocatore di professione, non solo perché esercita originalissime forme di scrittura ma anche perché propone una lettura della realtà molto particolare, rovesciata rispetto al modo di pensare comune. Esordisce come poeta nel 1905 con il libretto di versi "I cavalli bianchi". Nel 1909, dopo la pubblicazione della terza raccolta di versi, "Poemi", che gli procurò fra l'altro l'amicizia di Marinetti, aderì al Futurismo (di cui Marinetti era appunto il deus-ex-machina) e, nel 1913, iniziò le sue collaborazioni a “Lacerba”, la storica rivista di quella corrente letteraria. Dei futuristi ammira la lotta contro le convenzioni, contro il passato recente intriso di fumoserie, gli atteggiamenti di palese provocazione tipici del gruppo, le forme espressive che prevedono la “distruzione” della sintassi, dei tempi e dei verbi (per non parlare della punteggiatura) e propongono ”le parole in libertà”. Quello con i Futuristi è un sodalizio che viene così descritto e commentato dal poeta: “E senza conoscerci, senza sapere l'uno dell'altro, tutti quelli che da alcuni anni in Italia praticavano il verso libero, nel 1909 si trovarono raccolti intorno a quella bandiera; per modo che è col tanto deprecato, vilipeso e osteggiato verso libero, che agli albori del secolo si inizia la lirica del 900”. Dalle Edizioni Futuriste di “Poesia” esce nel 1911 uno dei capolavori di Palazzeschi, "Il Codice di Perelà", sottotitolato Romanzo futurista e dedicato “al pubblico! quel pubblico che ci ricopre di fischi, di frutti e di verdure, noi lo ricopriremo di deliziose opere d'arte”. Considerato da numerosi critici uno dei capolavori della narrativa italiana del Novecento, precursore della forma “antiromanzo”, il libro è stato letto come una “favola” che intreccia elementi allusivi a significati allegorici. Perelà è un simbolo, una grande metafora dello svuotamento di senso, della disintegrazione del reale. Dopo un così clamoroso idillio, ruppe però con il Futurismo nel 1914, quando la sua personalità indipendente e la sua posizione pacifista entrarono in rotta di collisione con la campagna per l'intervento in guerra dei Futuristi, evento che lo porta anche a riavvicinarsi a forme più tradizionali di scrittura di cui ne è esempio il romanzo “Le sorelle Materassi” (altro capolavoro assoluto). Dopo l'esperienza della prima guerra mondiale, durante la quale riuscì ad evitare di essere mandato al fronte (ma prestò servizio come soldato del genio), mantenne un atteggiamento distanziato ed attendista di fronte al regime fascista e alla sua ideologia di “ritorno all'ordine”. Condusse da quel momento in poi vita molto appartata, intensificando la sua produzione narrativa e collaborando, dal 1926 in poi, al “Corriere della sera”. Negli anni sessanta si sviluppa comunque il terzo periodo dell’attività letteraria del nostro autore che lo vede nuovamente interessato alle sperimentazioni giovanili. La contestazione giovanile lo coglie ormai anziano e, considerato da più parti una sorta di "classico" rimasto in vita, prende con poca serietà e con ironico distacco gli allori che i poeti della neoavanguardia innalzano di fronte al suo nome, riconoscendolo come precursore . Fra le sue ultime opere miracolosamente uscite dalla sua penna all'alba degli ottant'anni troviamo "Il buffo integrale" (1966) in cui lo stesso Italo Calvino riconobbe un modello per la propria scrittura, la favola surreale "Stefanino" (1969), il "Doge" (1967) e il romanzo "Storia di un’amicizia" (1971). Muore il 17 agosto 1974, all’Ospedale Fatebenefratelli sull’Isola Tiberina. In sintesi, la sua opera è stata definita, da alcuni dei maggiori critici del Novecento come una “Favola surreale e allegorica”. Palazzeschi, insomma, è stato un protagonista delle avanguardie del primo Novecento, un narratore e poeta d'eccezionale originalità, dalla multiforme attività letteraria, di alto livello anche in rapporto con gli sviluppi della cultura europea di quel periodo. (da www.leonardo.it) Dai "Canti di Castelvecchio"
Postato da Grazia01 il Mercoledì, 08 marzo @ 15:06:08 CET (4169 letture)
![]() La scure prendi su, Lombardo, da Fiumalbo e Frassinoro! Il vento ha già spiumato il cardo, fruga la tua barba d'oro. Lombardo, prendi su la scure, da Civago e da Cerù: è tempo di passar l'alture: tient'a su! tient'a su! tient'a su! Più fondo scavano le talpe nelle prata in cui già brina. E` tempo che tu passi l'Alpe, ché la neve s'avvicina. Le talpe scavano più fondo. Vanno più alte le gru. Fa come queste, e va pel mondo: tient'a su! tient'a su! tient'a su! Per le faggete e l'abetine, dalle fratte e dal ruscello, quel canto suona senza fine, chiaro come un campanello. Per l'abetine e le faggete canta, ogni ora ogni dì più, la cinciallegra, e ti ripete: tient'a su! tient'a su! tient'a su! Di bosco è come te, la cincia: campa su la macchia anch'essa. Sa che, col verno che comincia, ti finisce la rimessa. La cincia è come te, di bosco: sa che pane non n'hai più. Va dove n'ha rimesso il Tosco: tient'a su! tient'a su! tient'a su! Le gemme qua e là col becco picchia: anch'essa è taglialegna. Nel bosco è un picchierellar secco della cincia che t'insegna. Col becco qua e là le gemme picchia al mo' che picchi tu. Va, taglialegna, alle maremme... tient'a su! tient'a su! tient'a su! Ha il nido qua e là nei buchi d'ischie o d'olmi, ove gli garba; e pensa forse a que' tuoi duchi, grandi, dalla lunga barba. Nei buchi erbiti dove ha il nido, pensa al gran tempo che fu; e getta ancora il vecchio grido: tient'a su! tient'a su! tient'a su! Un'azza è quella con cui squadri là, nel verno, il pino e il cerro; con cui picchiavano i tuoi padri sopra i grandi elmi di ferro. Tu squadri i tronchi, ora; con l'azza butti le foreste giù. Va ora senza più corazza... tient'a su! tient'a su! tient'a su! Rimane nella valle il canto. Sono ormai, le cincie, sole. La scure dei lombardi intanto lassù brilla contro al sole. E sempre il canto che rimane, giunge in alto alla tribù, che parte a guadagnarsi il pane: tient'a su! tient'a su! tient'a su! L'uccellino del freddo Viene il freddo. Giri per dirlo tu, sgricciolo, intorno le siepi; e sentire fai nel tuo zirlo lo strido di gelo che crepi. Il tuo trillo sembra la brina che sgrigiola, il vetro che incrina... trr trr trr terit tirit... Viene il verno. Nella tua voce c'è il verno tutt'arido e tecco. Tu somigli un guscio di noce, che ruzzola con rumor secco. T'ha insegnato il breve tuo trillo con l'elitre tremule il grillo... trr trr trr terit tirit... Nel tuo verso suona scrio scrio, con piccoli crepiti e stiocchi, il segreto scricchiolettio di quella catasta di ciocchi. Uno scricchiolettio ti parve d'udirvi cercando le larve... trr trr trr terit tirit... Tutto, intorno, screpola rotto. Tu frulli ad un tetto, ad un vetro. Così rompere odi lì sotto, così screpolare lì dietro. Oh! lì dentro vedi una vecchia che fiacca la stipa e la grecchia... trr trr trr terit tirit... Vedi il lume, vedi la vampa. Tu frulli dal vetro alla fratta. Ecco un tizzo soffia, una stiampa già croscia, una scorza già scatta. Ecco nella grigia casetta l'allegra fiammata scoppietta... trr trr trr terit tirit... Fuori, in terra, frusciano foglie cadute. Nell'Alpe lontana ce n'è un mucchio grande che accoglie la verde tua palla di lana. Nido verde tra foglie morte, che fanno, ad un soffio più forte... trr trr trr terit tirit... La capinera Il tempo si cambia: stasera vuol l'acqua venire a ruscelli. L'annunzia la capinera tra li àlbatri e li avornielli: tac tac. Non mettere, o bionda mammina, ai bimbi i vestiti da fuori. Restate, che l'acqua è vicina: udite tra i pini e gli allori: tac tac. Anch'essa nel tiepido nido s'alleva i suoi quattro piccini: per questo ripete il suo grido, guardando il suo nido di crini: tac tac. Già vede una nuvola a mare: già, sotto le goccie dirotte, vedrà tutto il bosco tremare, covando tra il vento e la notte: tac tac. Valentino Oh! Valentino vestito di nuovo, come le brocche dei biancospini! Solo, ai piedini provati dal rovo porti la pelle de' tuoi piedini; porti le scarpe che mamma ti fece, che non mutasti mai da quel dì, che non costarono un picciolo: in vece costa il vestito che ti cucì. Costa; ché mamma già tutto ci spese quel tintinnante salvadanaio: ora esso è vuoto; e cantò più d'un mese per riempirlo, tutto il pollaio. Pensa, a gennaio, che il fuoco del ciocco non ti bastava, tremavi, ahimè!, e le galline cantavano, Un cocco! ecco ecco un cocco un cocco per te! Poi, le galline chiocciarono, e venne marzo, e tu, magro contadinello, restasti a mezzo, così con le penne, ma nudi i piedi, come un uccello: come l'uccello venuto dal mare, che tra il ciliegio salta, e non sa ch'oltre il beccare, il cantare, l'amare, ci sia qualch'altra felicità Canzone di marzo Che torbida notte di marzo! Ma che mattinata tranquilla! che cielo pulito! che sfarzo di perle! Ogni stelo, una stilla che ride: sorriso che brilla su lunghe parole. Le serpi si sono destate col tuono che rimbombò primo Guizzavano, udendo l'estate, le verdi cicigne tra il timo; battevan la coda sul limo le biscie acquaiole. Ancor le fanciulle si sono destate, ma per un momento; pensarono serpi, a quel tuono; sognarono l'incantamento. In sogno gettavano al vento le loro pezzuole. Nell'aride bresche anco l'api si sono destate agli schiocchi. La vite gemeva dai capi, fremevano i gelsi nei nocchi. Ai lampi sbattevano gli occhi le prime viole. Han fatto, venendo dal mare, le rondini tristo viaggio. Ma ora, vedendo tremare sopr'ogni acquitrino il suo raggio, cinguettano in loro linguaggio, ch'è ciò che ci vuole. Sì, ciò che ci vuole. Le loro casine, qualcuna si sfalda, qualcuna è già rotta. Lavoro ci vuole, ed argilla più salda; perché ci stia comoda e calda la garrula prole. Il croco I O pallido croco, nel vaso d'argilla, ch'è bello, e non l'ami, coi petali lilla tu chiudi gli stami di fuoco: le miche di fuoco coi lunghi tuoi petali chiudi nel cuore tu leso, o poeta dei pascoli, fiore di croco! Voi l'acqua di polla ravvivi, o viole, non chi la sua zolla rivuole! II Ma messo ad un riso di luce e di cielo, per subito inganno ritorna il tuo stelo colà donde l'hanno diviso: tu pallido, e fiso nel raggio che accora, nel raggio che piace, dimentichi ch'ora sei esule, lacero, ucciso: tu apri il tuo cuore, ch'è chiuso, che duole, ch'è rotto, che muore, nel sole! Temporale E` mezzodì. Rintomba. Tacciono le cicale nelle stridule seccie. E chiaro un tuon rimbomba dopo uno stanco, uguale, rotolare di breccie. Rondini ad ali aperte fanno echeggiar la loggia de' lor piccoli scoppi. Già, dopo l'afa inerte, fanno rumor di pioggia le fogline dei pioppi. Un tuon sgretola l'aria. Sembra venuto sera. Picchia ogni anta su l'anta. Serrano. Solitaria s'ode una capinera, là, che canta... che canta... E l'acqua cade, a grosse goccie, poi giù a torrenti, sopra i fumidi campi. S'è sfatto il cielo: a scosse v'entrano urlando i venti e vi sbisciano i lampi. Cresce in un gran sussulto l'acqua, dopo ogni rotto schianto ch'aspro diroccia; mentre, col suo singulto trepido, passa sotto l'acquazzone una chioccia. Appena tace il tuono, che quando al fin già pare, fa tremare ogni vetro, tra il vento e l'acqua, buono, s'ode quel croccolare co' suoi pigolìi dietro. La mia sera Il giorno fu pieno di lampi; ma ora verranno le stelle, le tacite stelle. Nei campi c'è un breve gre gre di ranelle. Le tremule foglie dei pioppi trascorre una gioia leggiera. Nel giorno, che lampi! che scoppi! Che pace, la sera! Si devono aprire le stelle nel cielo sì tenero e vivo. Là, presso le allegre ranelle, singhiozza monotono un rivo. Di tutto quel cupo tumulto, di tutta quell'aspra bufera, non resta che un dolce singulto nell'umida sera. E`, quella infinita tempesta, finita in un rivo canoro. Dei fulmini fragili restano cirri di porpora e d'oro. O stanco dolore, riposa! La nube nel giorno più nera fu quella che vedo più rosa nell'ultima sera. Che voli di rondini intorno! che gridi nell'aria serena! La fame del povero giorno prolunga la garrula cena. La parte, sì piccola, i nidi nel giorno non l'ebbero intera. Né io... e che voli, che gridi, mia limpida sera! Don... Don... E mi dicono, Dormi! mi cantano, Dormi! sussurrano, Dormi! bisbigliano, Dormi! là, voci di tenebra azzurra... Mi sembrano canti di culla, che fanno ch'io torni com'era... sentivo mia madre... poi nulla... sul far della sera. Da "Il ritorno a San Mauro"
Postato da Grazia01 il Mercoledì, 08 marzo @ 14:53:12 CET (1865 letture)
![]() La squilla sonava l'entrata. Diceva con voce affrettata: - Non entri? Non entri? Perché? C'è un rito con fiori, con ceri, con fiocchi d'incenso leggieri. Su, entra, ché suono per te. Udrai dopo un chiaro tintinno, salire la gloria d'un inno dall'organo che gemerà. C'è un vecchio che mormora stanco con tutto un suo tremolìo bianco, parole di felicità. La panca vedrai dove un giorno veniva coi piccoli intorno tua mamma: venivi anche tu. Pregava (tuo padre non c'era) pregava; ma quella preghiera s'è forse smarrita laggiù. T'udrai (sa il tuo nome!) chiamare da quella... Ha le lagrime amare del cuore che invano pregò. Non entri? Anche tu piangerai. Ma il piangere è buono, lo sai; ma il piangere è buono, lo so. Sonai per tua mamma... ma grave, ma dolce, ma pia, come un Ave. sonai per la madre che fu! Sonai con rintocchi sì piani! pensando che aveva lontani voi, bimbi, che non vide più... Mia madre Zitti, coi cuori colmi, ci allontanammo un poco. Tra il nereggiar degli olmi brillava il cielo in fuoco. ... Come fa presto sera, o dolce madre, qui! Vidi una massa buia di là del biancospino: vi ravvisai la thuia, l'ippocastano, il pino... ... Or or la mattiniera voce mandò il luì; Tra i pigolìi dei nidi, io vi sentii la voce mia di fanciullo... E vidi, nel crocevia, la croce. ... sonava a messa, ed era l'alba del nostro dì: E vidi la Madonna dell'Acqua, erma e tranquilla, con un fruscìo di gonna, dentro, e l'odor di lilla. ... pregavo... E la preghiera di mente già m'uscì! Sospirò ella, piena di non so che sgomento. Io me le volsi: appena vidi il tremor del mento. ... Come non è che sera, madre, d'un solo dì? Me la miravo accanto esile sì, ma bella: pallida sì, ma tanto giovane! una sorella! bionda così com'era quando da noi partì. Giovannino In una breccia, allo smorir del cielo, vidi un fanciullo pallido e dimesso. Il fior caduto ravvisò lo stelo; io nel fanciullo ravvisai me stesso. Ci rivedemmo all'ultimo riflesso; e sì, l'uno dell'altro ebbe pietà. Gli dissi: - Tu sei qui solo soletto: un mucchiarello d'alga presso il mare. Hai visto un chiuso, e tu non hai più tetto; di là c'è gente, e tu vorresti entrare. Oh! quella casa è senza focolare: non c'è, fuor che silenzio, altro, di là. - Scosse i capelli biondi di su gli occhi. - No! - mi rispose: - là c'è il camposanto. Tua madre ti riprende sui ginocchi; tu ti rivedi i fratellini accanto. Si trova un bacio quando qui s'è pianto; si trova quello che smarrimmo qui. - - O fior caduto alla mia vita nuova! - io rispondeva, - o raggio del mattino! Io persi quello che non più si trova, e vano è stato il lungo mio cammino. A notte io vedo, stanco pellegrino, che deviai su l'alba del mio dì! Felice te che a quello che rimpiango, così da presso, al limitar, rimani! - - Misero me, che fuori ne rimango, così lontano come i più lontani! Alla porta che s'apre alzo le mani, ma tu sai ch'io... non posso entrarvi più. S'apre a tant'altri gracili fanciulli, addormentati sui lor lunghi temi, addormentati in mezzo ai lor trastulli; s'apre appena e si chiude e par che tremi: assai se, là, venir tra i crisantemi vedo la rossa veste di Gesù!... - Commiato Una stella sbocciò nell'aria. Le risplendé nelle pupille. Su la campagna solitaria tremava il pianto delle squille. - E` ora, o figlio, ora ch'io vada. Sono stata con te lunghe ore. Tra questi bussi è la mia strada; la tua, tra quelle acacie in fiore. Sii buono e forte, o figlio mio: va dove t'aspettano. Addio! ...Venir con te? Ma non è dato! Sai pure: m'han cacciata via. Ci fu chi non mi volle allato nel mondo, così larga via; chi non permise che, sia pure, stessi con le mie creature. ...Tu venir qui? Viene chi muore... E tu vuoi dunque venir qui. Sei stanco: è vero? Hai male al cuore. Quel male l'ebbi anch'io, Zvanî! E` un male che non fa dormire; ma che alfine poi fa morire. - Si chiudevano i casolari. Cresceva l'ombra delle cose. Ancor tra i lontani filari traspariva color di rose. - Ma dimmi, o madre, dimmi almeno, se nel tramonto del suo giorno tuo figlio si deve sereno preparare per un ritorno! se ciò che qualcuno ci prende, v'è qualch'altro che ce lo rende! Ricorderò quella preghiera con quei gesti e segni soavi; tuo figlio risarà qual era allora che glieli insegnavi: s'abbraccerà tutto all'altare: ma fa che ritorni a sperare! A sperare e ora e nell'ora così bella se a te conduce! O madre, fa ch'io creda ancora in ciò ch'è amore, in ciò ch'è luce! O madre, a me non dire, Addio, se di là è, se teco è Dio! - Sfioriva il crepuscolo stanco. Cadeva dal cielo rugiada. Non c'era avanti me, che il bianco della silenziosa strada. Giovanni Pascoli Giovanni Pascoli
Postato da Grazia01 il Mercoledì, 08 marzo @ 14:49:57 CET (2284 letture)
![]() La preraffaelita
Postato da Grazia01 il Mercoledì, 08 marzo @ 14:48:28 CET (1336 letture)
![]() surge il profilo della donna intenta, esile il collo; la pupilla spenta pare che attinga il vuoto e l'infinito. Avvolta d'ermesino e di sciamito quasi una pompa religiosa ostenta; niuna mollezza femminile allenta l'esilità del busto irrigidito. Tien fra le dita de la manca un giglio d'antico stile, la sua destra posa sopra il velluto d'un cuscin vermiglio. Niuna dolcezza è ne l'aspetto fiero; emana da la bocca lussuriosa l'essenza del Silenzio e del Mister. Guido Gozzano Primavere romantiche
Postato da Grazia01 il Mercoledì, 08 marzo @ 14:28:19 CET (2119 letture)
![]() della voce suscitava alla mia mente la visione del tuo sogno perduto. Or ecco: ho imprigionato il sogno con una sottile malia di sillabe e di versi e te lo rendo perché tu riviva le gioie della giovinezza. Non turbate il silenzio. Tutto tace verso la donna rivestita a lutto: la campagna, lo stagno, il cielo, tutto illude la dolente... O pace! pace! O pace, pace! Poiché nulla spera ormai la donna declinante. Invano fiorisce di viole il colle e il piano: non ritorna per lei la primavera. Oh antiche primavere! Oh i suoi vent'anni oimè per sempre dileguati. Quanto, oh quanto ella ha sofferto e come ha pianto! Atroci sono stati i suoi affanni. Nulla più spera ormai: però la bella timida primavera che sorride dilegua la mestizia che la uccide, e un sogno antico in lei si rinnovella. Non pure ieri il piede ella volgea allo stagno che l'isola circonda? Ella recava un libro ove la bionda reina per il paggio si struggea: (avea il volume incisioni rare dove il bel paggio con la mano manca alla donna offeria la rosa bianca e s'inchinava in atto d'adorare). O sogni d'altri tempi, o tanto buoni sogni d'ingenuità e di candore, non sapevate il vuoto e il vostro errore o innocenti d'allor decameroni! Ella col libro qui venia leggendo e a quando a quando in terra s'inchinava la mammola, l'anemone, e la flava primula prestamente raccogliendo. Oh tutto Ella ricorda: le turchine rose trapunte della bianca veste, la veste bianca in seta, e la celeste fascia che le gonfiava il crinoline. Poi apriva il cancello, e il ponte stesso dove or riposa la persona stanca allora trascorreva agile e franca né s'indugiava come indugia adesso. Poi entrava nell'isola, e furtiva in fra il tronco del tremulo e del faggio guatava se al boschivo romitaggio l'amico del suo sogno conveniva. Oh tutto Ella ricorda! Ecco apparire l'Amato: giunge al margine del vallo dell'acque, e raffrenato il suo cavallo il cancello la supplica d'aprire. «Non dunque accetta è l'umile dimanda del vostro paggio, o bella castellana? Combattuto ha per voi; fatto gualdana egli ha per voi, magnifica Jolanda.» Egli disse per gioco. D'un soave sorriso ella rispose: assai le piacque il madrigale, ed al di là dell'acque, sorridendo d'amor, getta la chiave. Oh tutto Ella rammemora. Non fu ieri? No, non fu ieri. Il lungo affanno ella dunque già scorda? O atroce inganno quel dolce aprile non verrà mai più... Non turbate il silenzio. Tutto tace verso la donna rivestita a lutto, la campagna, lo stagno, il cielo, tutto illude la dolente... O pace, pace! Guido Gozzano Salvezza
Postato da Grazia01 il Mercoledì, 08 marzo @ 14:22:50 CET (2309 letture)
Guido Gozzano
Postato da Grazia01 il Mercoledì, 08 marzo @ 14:20:04 CET (2311 letture)
![]() Guido Gustavo Gozzano nasce a Torino il 19 dicembre 1883. Di famiglia borghese benestante, trascorre i suoi primi vent’anni tra le numerose proprietà famigliari, sparse tra Torino ed Agliè, nel Canavese. Frequenta l’università senza mai laurearsi in giurisprudenza (nondimeno, amava presentarsi come avvocato, tanto che si può dire che lo fosse davvero, anche se non a tutti gli effetti). Tuttavia, anche se con la laurea, si sarebbe potuto permettere di non esercitare mai il mestiere. Collabora, poco più che ventenne, a varie riviste con prose e racconti, riscotendo un discreto successo. Inizialmente ammiratore del D’Annunzio, Gozzano scrive nel 1907 “La via del rifugio”, in cui imita chiaramente lo stile ridondante del Vate, seppur già attenuato da una certa aura malinconica e vaga, che sa di spleen e di irrispettoso trastullo. Le cose cambiano radicalmente dopo questa data: il dandy piemontese scopre d’avere il cosiddetto “mal sottile” (la tisi), e questo suo appuntamento con la morte incide profondamente nella seconda raccolta di poesie, che pubblica nel 1911; “I Colloqui” riscuotono maggior successo della raccolta precedente, anche se dispiacciono a molti critici, che vi intuiscono un amaro di fondo ed allo stesso tempo una leggerezza svogliata che disturba non poco gli animi ottimisti ma chiusi dei piemontesi d’inizio secolo. Tra il 1907 ed il 1909 c’è la relazione con la poetessa Amalia Guglielminetti; tale relazione ha un carattere precipuamente mondano e letterario, più che di una vera relazione amorosa. I due avranno brevi incontri, in cui la poetessa spera ogni volta di conquistare il bel poeta, che da parte sua non pare intenzionato a farsi sedurre più di tanto. La malinconica rassegnazione alla morte viene spazzata via da un breve miraggio di guarigione o di miglioramento, compiendo, all’età di trent’anni, un lungo viaggio in India; tiene in questi giorni una sorta di diario di bordo, del quale manda le pagine a pubblicare, a beneficio della Stampa torinese (“Verso la cuna del mondo”, pubblicato postumo). Tuttavia l’agognata guarigione si rivela ben presto una bolla di sapone, e Gozzano deve interrompere il viaggio, tornando in patria più malato ma anche più rasserenato di prima. Tra il ’15 ed il ’16 pare che Guido componga varii soggetti cinematografici per la casa produttrice Ambrosio, luminare del cinema muto di quegli anni, ma le fonti non sono precise né abbastanza attendibili. Il poeta si spegne a Torino il 9 agosto 1916, e due giorni dopo viene seppellito nel cimitero di Agliè.Di Guido è ricordata la “bella voce”, è tramandata una essenziale, garbata, gestualità. Di lui soprattutto, viene replicato il profilo di un “giovin signore”, misurato ed elegante, signorilmente compito […]. “Aristocratico”, lo ricordano Salvator Gotta eEmilio Zanzi.” Gozzano si presenta a Mario Vugliano “inchinevole, cerimonioso, timido, biondino, tirato a lucido dai capelli alle scarpe. […] Industre per parole scelte e ben collocate, che prendevano e davano spicco al comune discorso. […] portava una cravatta nera a farfalla”. Tale “insegna esterna di poesia”, non è sufficiente, comunque, “a levargli l’aspetto di giovane molto ‘comesideve’”. La testimonianza è preziosa, soprattutto perché fa contrasto con l’immagine di “esteta elettissimo” che Gozzano al suo esordio letterario tende a dare di sé, in verso ed in prosa. Ciò accade negli anni tra il 1903 ed il 1904. ma subito dopo, nel 1905, l’autoritratto che Guido ci consegna è capovolto: è il profilo di un poeta borghese, che oppone, alle stravaganze dell’esteta, la sua “scialba persona biondiccia”, la propria “democrazia estetica”, i propri “solini”, le sue “cravatte provinciali”. Appare chiaro che Gozzano bada continuamente a cambiare le carte in tavola, a proporre di sé un identikit contraddittorio. Il Gozzano ventenne è un assiduo frequentatore di teatri, sale da concerto, e soprattutto caffè. Capeggiando un ristretto gruppo di giovani intellettuali scapestrati, Guido si lancia in scorribande notturne, commerci con le “cameriste”, visite alle attrici. Si presentava al Fiorio “elegantissimo e impeccabile tra noi goliardi, fantasticanti e dissipati” ricorda Calacaterra: “passava lunghe ore nei caffè, parlando di arte e di letteratura, di storia e filosofia, esaltando i parnassiani… e intanto centellinava qualche liquore o assaporava a fior di labbra, con gesto raffinato, un poco d’assenzio, la ‘fata verdeamara’, che diceva dargli qualche dolcezza. Poi spesso allontanavasi col fido suo Carlo Vallini per qualche avventura notturna”. (da: “Guido Gozzano, vita breve di un rispettabile bugiardo”, G. De Rienzo - Rizzoli 1982) Sono una stella
Postato da Grazia01 il Martedì, 07 marzo @ 23:14:18 CET (1512 letture)
![]() che osserva il mondo, disprezza il mondo e si consuma nel proprio ardore. Io sono il mare di notte in tempesta il mare urlante che accumula nuovi peccati e agli antichi rende mercede. Sono dal vostro mondo esiliato di superbia educato, dalla superbia frodato, io sono il re senza corona. Son la passione senza parole senza pietre del focolare, senz'arma nella guerra, è la mia stessa forza che mi ammala. Hesse Biografia Nella nebbia
Postato da Grazia01 il Martedì, 07 marzo @ 23:13:00 CET (1655 letture)
![]() E' solo ogni cespuglio ed ogni pietra, né gli alberi si scorgono tra loro, ognuno è solo. Pieno di amici mi appariva il mondo quando era la mia vita ancora chiara; adesso che la nebbia cala non ne vedo più alcuno. Saggio non è nessuno che non conosca il buio che lieve ed implacabile lo separa da tutti. Strano, vagare nella nebbia! Vivere è solitudine. Nessun essere conosce l'altro ognuno è solo. Hesse Biografia Alla malinconia
Postato da Grazia01 il Martedì, 07 marzo @ 23:11:28 CET (1775 letture)
![]() poiché dei tuoi occhi cupi avevo orrore, io figlio tuo infedele ti obliai in braccia amanti, nell'onda del fragore. Ma tu mi accompagnavi silenziosa, eri nel vino ch'io bevvi sconsolato, eri nell'ansia delle mie notti d'amore perfino nello scherno con cui ti ho dileggiata. Ora conforti tu le membra mie spossate, hai accolto sul tuo grembo la mia testa ora che dai miei viaggi son tornato: giacché ogni mio vagare era un venire a te. Hesse Biografia Lamento
Postato da Grazia01 il Martedì, 07 marzo @ 23:10:12 CET (1206 letture)
![]() Noi siamo soltanto un fiume, aderiamo ad ogni forma: al giorno ed alla notte, al duomo e alla caverna passiamo oltre, l'ansia di essere ci incalza. Forma su forma riempiamo senza tregua, nessuna ci diviene patria, gioia o pena, sempre siamo in cammino, ospiti sempre, non c'è campo né aratro per noi, né pane cresce. E non sappiamo cosa Dio ci serbi, gioca con noi, argilla nella mano, muta e cedevole che non piange o ride, mille volte impastata e mai bruciata. Potessimo, una volta, farci pietra, durare! Questa è la nostra eterna nostalgia, ma un brivido perdura a raggelarci e non c'è pace sulla nostra via. Hesse Biografia Luce del mattino
Postato da Grazia01 il Martedì, 07 marzo @ 23:08:32 CET (1781 letture)
![]() e perduto, luce della vita, oggi m'inondi di un tuo tardivo sapere, sprizzato dal lungo, greve sonno dell'anima profonda. Dolce, soave luce, sorgiva appena nata! Tra allora e adesso l'intera vita, ahi, troppo spesso opima, superba ritenuta, non conta più. Voi sole, a me restituite, odo, fiabesche melodie perdute, giovani, e insieme vecchie eternamente, obliati, antichi fanciulleschi canti. Su ogni turbine, polvere vorticante, splendi lassù, alta sul mio cammino, oltre i falliti sforzi del vagabondo errore, fonte serena, pura luce del mattino! Hesse Biografia Scricchiolio di un ramo spezzato
Postato da Grazia01 il Martedì, 07 marzo @ 23:07:24 CET (1226 letture)
![]() che ormai pende anno dopo anno e asciutto scricchiola al vento il suo canto, senza più fogliame né scorza, spelato, scialbo, di lunga vita di lunga morte stanco. Secco risuona e tenace il suo canto, caparbio risuona e in segreto angoscioso ancora per tutta un'estate, per tutto un inverno ancora. Hesse Biografia Annette al suo amato
Postato da Grazia01 il Martedì, 07 marzo @ 23:05:00 CET (1343 letture)
Mentre andavo
Postato da Grazia01 il Martedì, 07 marzo @ 23:01:44 CET (1963 letture)
Cupido, monello testardo
Postato da Grazia01 il Martedì, 07 marzo @ 23:00:25 CET (1593 letture)
![]() M'hai chiesto un riparo per poche ore, e quanti giorni e notti sei rimasto! Adesso il padrone in casa mia sei tu! Sono scacciato dal mio ampio letto; sto per terra, e di notte mi tormento; il tuo capriccio attizza fiamma su fiamma nel fuoco, brucia le scorte d'inverno e arde me misero. Hai spostato e scompigliato gli oggetti miei, io cerco, e sono come cieco e smarrito. Strepiti senza ritegno, e io temo che l'animula fugga via per sfuggire te, e abbandoni questa capanna. Goethe Biografia Dove siamo nati?
Postato da Grazia01 il Martedì, 07 marzo @ 22:56:43 CET (1470 letture)
Per te amore mio
Postato da Grazia01 il Martedì, 07 marzo @ 22:53:11 CET (1747 letture)
![]() ![]() Per te amore mio Sono andato al mercato degli uccelli E ho comprato uccelli Per te amor mio Sono andato al mercato dei fiori E ho comprato fiori Per te amor mio Sono andato al mercato di ferraglia E ho comprato catene Pesanti catene Per te amor mio E poi sono andato al mercato degli schiavi E t'ho cercata Ma non ti ho trovata amore mio. Jacques Prevert In estate come in inverno
Postato da Grazia01 il Martedì, 07 marzo @ 22:50:00 CET (1263 letture)
![]() ![]() In estate come in inverno nel fango nella polvere sdraiato su vecchi giornali l'uomo che ha l'acqua nelle scarpe guarda le barche lontane. Accanto a lui un imbecille un signore che ne ha tristemente pesca con la lenza Egli non sa perché vedendo passare una chiatta la nostalgia lo afferra Anch'egli vorrebbe partire lontano lontano sull'acqua e vivere una nuova vita con un po' di pancia in meno. In estate come in inverno nel fango nella polvere sdraiato su vecchi giornali l'uomo che ha l'acqua nelle scarpe guarda le barche lontane. Il bravo pescatore con la lenza torna a casa senza un sol pesce Apre una scatoletta di sardine e poi si mette a piangere Capisce che dovrà morire e che non ha mai amato Sua moglie lo compatisce con un sorriso ironico E' una ignobile megera una ranocchia d'acquasantiera. In estate come in inverno nel fango nella polvere sdraiato su vecchi giornali l'uomo che ha l'acqua nelle scarpe guarda le barche lontane. Sa bene che i battelli son grandi topaie sul mare e che per i bassi salari le belle barcaiole e i loro poveri battellieri portano a spasso sui fìumi una carrettata di fìgli soffocati dalla miseria in estate come in inverno con non importa qual tempo. Jacques Prevert I ragazzi che si amano
Postato da Grazia01 il Martedì, 07 marzo @ 22:48:05 CET (14618 letture)
![]() ![]() I ragazzi che si amano si baciano in piedi Contro le porte della notte E i passanti che passano li segnano a dito Ma i ragazzi che si amano Non ci sono per nessuno Ed è la loro ombra soltanto Che trema nella notte Stimolando la rabbia dei passanti La loro rabbia il loro disprezzo le risa la loro invidia I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno Essi sono altrove molto più lontano della notte Molto più in alto del giorno Nell'abbagliante splendore del loro primo amore Jacques Prevert La nostra gita e altre poesie
Postato da Grazia01 il Martedì, 07 marzo @ 22:29:10 CET (1493 letture)
Giosuè Carducci
Postato da Grazia01 il Lunedì, 27 febbraio @ 20:21:00 CET (6288 letture)
![]() ![]() Giosuè Carducci nasce il 27 luglio 1835 a Valdicastello in provincia di Lucca, da Michele Carducci, medico e rivoluzionario, e Ildegonda Celli, di origini volterrane. Il 25 ottobre 1838 la famiglia Carducci, a causa del concorso vinto dal padre per diventare medico di zona, si trasferisce a Bolgheri, sperduto paesello della Toscana che grazie al poeta diventerà famoso in tutti il mondo. La permanenza nella Maremma è testimoniata e rievocata con affettuosa nostalgia nel sonetto "Traversando la Maremma toscana" (1885) e in molti altri luoghi della sua poesia. Del nucleo familiare fa anche parte la celeberrima Nonna Lucia, una figura determinante nell'educazione e formazione del piccolo Giosuè tanto che il poeta la ricorda con grande affetto nella poesia "Davanti San Guido". Pochi anni dopo, però (precisamente nel 1842), questa figura per noi ormai nobilmente letteraria muore, gettando Giosuè nella disperazione. I moti rivoluzionari intanto prendono piede, moti nei quali è coinvolto il passionale e "testacalda" padre Michele. La situazione si complica al punto tale che vengono sparate fucilate contro la casa della famiglia Carducci, in seguito all'acuirsi del conflitto tra Michele Carducci e la parte più conservatrice della popolazione bolgherese; l'evento li costringe al trasferimento nella vicina Castagneto dove rimangono per quasi un anno (oggi conosciuta appunto come Castagneto Carducci). Il 28 aprile 1849 i Carducci giungono a Firenze. Giosuè frequenta l'Istituto degli Scolopi e conosce la futura moglie Elvira Menicucci, figlia di Francesco Menicucci, sarto militare. L'11 novembre 1853 il futuro poeta entra alla Scuola Normale di Pisa. I requisiti per l'ammissione non collimano perfettamente, ma è determinante una dichiarazione di padre Geremia, suo maestro, in cui garantisce: "... è dotato di bell'ingegno e di ricchissima immaginazione, è colto per molte ed eccellenti cognizioni, si distinse persino tra i migliori. Buono per indole si condusse sempre da giovine cristianamente e civilmente educato". Giosuè sostiene gli esami svolgendo brillantemente il tema "Dante e il suo secolo" e vince il concorso. Negli stessi anno costituì, insieme con tre compagni di studi, il gruppo degli "Amici pedanti", impegnato nella difesa del classicismo contro i manzoniani. Dopo la laurea, conseguita con il massimo dei voti, insegna retorica al liceo di San Miniato al Tedesco. E' il 1857, anno in cui compone le "Rime di San Miniato" il cui successo è quasi nullo, salvo una citazione su una rivista contemporanea del Guerrazzi. La sera di mercoledì 4 novembre si uccide il fratello Dante squarciandosi il petto con un bisturi affilatissimo del padre; mille le congetture. Si dice perché stanco dei rimbrotti familiari specialmente del padre, che era diventato intollerante e duro anche con i figli. L'anno dopo, ad ogni modo, muore il padre del poeta. Un anno di lutto e il poeta finalmente si sposa con Elvira. In seguito, dopo la nascita delle figlie Beatrice e Laura, si trasferisce a Bologna, un ambiente assai colto e stimolante, dove insegna eloquenza italiana all'Università. Ebbe così inizio un lunghissimo periodo di insegnamento (durato fino al 1904), caratterizzato da una fervida e appassionata attività filologica e critica. Nasce anche il figlio Dante che però muore in giovanissima età. Carducci è duramente colpito dalla sua morte: torvo, lo sguardo fisso nel vuoto, si porta dietro il suo dolore ovunque, in casa, all'università, a passeggio. Nel giugno 1871 ripensando al figlio perduto compone "Pianto antico". Negli anni '60, lo scontento provocato in lui dalla debolezza dimostrata, a suo giudizio, in più occasioni dal governo postunitario (la questione romana, l'arresto di Garibaldi) sfociò in un atteggiamento filo-repubblicano e addirittura giacobino: ne risentì anche la sua attività poetica, caratterizzata in quest'epoca da una ricca tematica sociale e politica. Negli anni successivi, con il mutare della realtà storica italiana, Carducci passò da un atteggiamento violentemente polemico e rivoluzionario a un ben più tranquillo rapporto con lo stato e la monarchia, che finì per l'apparirgli la migliore garante dello spirito laico del Risorgimento e di un progresso sociale non sovversivo (contro al pensiero socialista). La nuova simpatia monarchica culminò nel 1890 con la nomina a senatore del regno. Tornato a Castagneto nel 1879, dà vita, insieme ai suoi amici e compaesani alle celebri "ribotte " durante le quali ci si intrattiene degustando piatti tipici locali, bevendo vino rosso, chiacchierando e recitando i numerosi brindisi composti per quelle occasioni conviviali. Nel 1906 al poeta viene assegnato il Premio Nobel per la Letteratura. Le condizioni di salute non gli consentono di recarsi a Stoccolma per ritirare il premio che gli viene consegnato nella sua casa di Bologna. Il 16 febbraio 1907 Giosuè Carducci muore nella sua casa di Bologna. I funerali si tengono il 19 febbraio e il Carducci viene seppellito alla Certosa di Bologna dopo varie polemiche relative al luogo di inumazione. Kahlil Gibran
Postato da Grazia01 il Lunedì, 27 febbraio @ 20:18:44 CET (3559 letture)
![]() ![]() Kahlil nasce a Bisherri, una cittadina nel Libano settentrionale, il 6 dicembre 1883, luogo circondato dai famosi "Cedri del Libano". Si chiamava Gibran Khalil Gibran e quando emigrò negli Stati Uniti a undici anni il nome gli fu abbreviato da un'insegnante inglese. Nei suoi scritti in inglese la sua firma sarà sempre Kahlil Gibran. I genitori sono cristiani maroniti, religione cattolica formata dopo lo scisma bizantino del V sec a.C., ha due sorelle, Mariana e Sultana, e il fratellastro Boutros (nato da un precedente matrimonio della madre). La sua formazione si può ricostruire attraverso gli anni neoplatonici e paganeggianti di Boston, ove emigra nel 1894 con la madre, i fratelli ed alcuni zii. Sono gli anni dell'emigrazione araba verso gli Stati Uniti e il Brasile. Il padre, semialcoolizzato, rimane in Libano forse in prigione, Gibran non avrà un buon ricordo del rapporto con lui. E la madre, Kamele Rahmè, gli trasmette la religiosità e i valori umani della sua tradizione culturale. A 14 anni Kahlil torna in Libano per frequentare la scuola superiore all' Hikmè di Beirut. In questo periodo si imbatte nel classicismo libanese che separa abissalmente i ricchi dai poveri, l'aristocrazia ed il clero dal popolo. Verosimilmente risale a questi anni il contatto più profondo e duraturo con le Sacre Scritture.Completati gli studi, nel 1897, viaggia attraverso il Libano e la Siria. Vi fa ritorno nel 1902 come guida e interprete di una famiglia americana, ma presto deve rientrare a Boston a causa della malattia della madre, che muore di tisi l'anno seguente, e sucessivamente anche i suoi fratelli. A Boston, nel 1904, conosce Mary Haskell, l'incontro più importante della sua vita. Mary sarà sua mecenare, collaboratrice, amica, musa, e più tardi curatrice delle sue opere. Mary rappresentò un sostegno decisivo per lui, morale e materiale. Si sono incontrati all'esposizione di alcuni quadri di Kahlil presso lo studio di un amico fotografo. Mary che ha 10 anni più di lui, è preside di una scuola femminile. Grazie ai suoi contributii Gibran studia pittura a Parigi, tra il 1908 e il 1910, all'Acadèmie Lucien (accademia delle belle arti di Parigi). Legge Voltaire e Rousseau, Blake, Nietzsche; scrive "Spiriti Ribelli", pubblicato in arabo nel 1908, una breve raccolta di racconti dal tono aspro e nostalgico sulla società libanese. Tornato negli Stati Uniti (1912), va a vivere a New York dove apre uno studio, da lui definito nei suoi scritti "l'eremo" si dedica contemporaneamente alla letteratura e alle arti figurative. Insieme all'amico Mikhail Naimy é la figura di spicco di un'associazione letteraria Siro-Libanese, Arrabitah-al-Alima, nata a Boston e New York tra letterati e pittori arabi d'oltre oceano, i Mahjar "immigrati" appunto. Con il suo impegno in questa associazione Gibran vuole portare avanti una "rivolta contro l'occidente tramite l'oriente", parole scritte in occasione della pubblicazione de "Il Folle" (1918), cioè contro il decadentismo dell'occidente e il tradimento del suo stesso Romanticismo. Allo stesso tempo sente il bisogno di un rinnovamento formale e contenutistico della letteratura araba, per esempio si libera della poesia monorima e quantitativa per il verso libero. Nel nuovo continente egli si inserisce nella poesia americana sulla scia di Thoreau, Whiteman, Emerson (che stimò in modo particolare), poeti naturalisti di tradizione protestante e predicatoria. Spesso pubblica dei disegni insieme alle opere, mai lunghe. Le prime biografie di Gibran, scritte da chi lo frequentò molto negli ultimi anni, come Mikhail Naimy e Barbara Young, e in parte dettate da Kahlil stesso, non sono tuttavia completamente affidabili, in quanto tendono ad alimentare il ruolo di Guru che molti ammiratori già vedevano in Gibran. Il primo studio serio su di lui è quello di Kahlil S. Hawi, pubblicato a Beirut nel 1963. La salute di Gibran è piuttosto minata negli ultimi anni di vita che trascorre tra New York e Boston, dove vive e lavora sua sorella Mariana. Muore a New York, di cirrosi epatica e con un polmone colpito da tubercolosi, il 10 Aprile 1931, aveva 48 anni e stava lavorando a "The Wanderer" raccolta di parabole e parole. Gibran è sepolto in un antico monastero del suo paese d'origine, secondo la sua volontà. Fu sepolto in un giorno di pioggia, accompagnato da pochi amici, tra i quali Barbara Young. Per l'occasione il giornale "The New York Sun" annuncio': "A Prophet is Dead." "Un profeta è morto". Gibran lascia i diritti d'autore in eredità agli abitanti di Bisherri per opere di pubblico beneficio. Pablo Neruda
Postato da Grazia01 il Lunedì, 27 febbraio @ 20:12:35 CET (6343 letture)
![]() ![]() Pablo Neruda è lo pseudonimo che Neftalì Ricardo Reyes scelse in onore del poeta cecoslovacco Jan Neruda (1834-1891) cantore della povera gente. Egli nacque a Parral nel 1904, da famiglia modesta che trascorse l'infanzia scontrosa nel piovoso, malinconico e selvaggio sud del Cile; frequentò le scuole fino al liceo nella cittadina di Temuco e poi l'Università a Santiago. Dal 1926 al 43 girò il mondo come rappresentante diplomatico del suo paese, nel'36-37 visse l'esperienza della guerra civile spagnola non soltanto da spettatore interessato. L'incontro o meglio la scoperta della Spagna fu per Pablo Neruda un fatto di estrema importanza. Come scrisse su di lui Dario Puccini: "Uno di quei salti dialettici grazie ai quali la storia esterna diviene storia personale, la vita degli altri vita propria, il dolore del mondo sentimento radicato" .Neruda, favorito dalle circostanze, mise un pur lieve scompiglio nella letteratura spagnola facendosi paladino della "poesia impura" opponendosi alla linea purista di Juan Ramon Ramirez. Allora la sua influenza non fu preponderante ma si fece sentire più tardi e ancora perdura in qualche modo presso le generazioni intermedie e recenti. Dopo aver subito il fascino dell'incontro con la poesia spagnola, il poeta cileno venne travolto nell'appassionata vicenda della guerra civile: prese subito posizione a favore della Repubblica aggredita; fu scosso dalla tremenda fucilazione di Lorca e con Cesar Vallejo, un poeta peruviano, fondò il Gruppo ispano-americano d'aiuto alla Spagna. La guerra civile determinò un mutamento profondo nell'animo, nelle convinzioni, nella cultura, nella poesia del poeta. La sua fu una vera e propria conversione al prossimo e la sua poesia divenne quella dell'uomo con gli uomini cioè una poesia sociale e di lotta politica, di adesione e di repulsione rispetto al prossimo, di sostegno e di esacrazione, di speranza e di rabbia: d'azione" E quando cessata la guerra civile e sconfitte le armi repubblicane tanti spagnoli furono costretti all'esilio o morirono fucilati o in carcere quel "legame materno" con la Spagna si fece per Pablo drammatico e fu come una goccia di sangue che rimase indelebile. Se uno dei sentimenti più forti dell'anima moderna è quello di un continuo e cocente esilio di una imprecisata perdita esistenziale, la Spagna è stata per Neruda quella perdita, quell'esilio:Un vuoto angoscioso e accorato che si ripercuote nel suo virile grido di poeta dal lontano '39 a oggi Nel 1944 tornato in Cile s'iscrisse al partito comunista cileno e venne eletto senatore. Dal '48 al 52 fu perseguitato e costretto all'esilio per la sua presa di posizione contro il neodittatore Gonzalez Videla; così tornò a viaggiare per il mondo.Nel 1971 guadagna il premio nobel per la letteratura, nel 1973 torna in Cile e in quello stesso anno muore a Santiago subito dopo il colpo di Stato del generale Pinochet. Ciao
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